di LUCA PROTETTI –
Che si tratti di un video considerato “blasfemo” o delle immagini imbarazzanti di personaggi pubblici, ci si chiede dove finisce la tutela dei diritti fondamentali sulla Rete e dove inizia la censura. Il trailer del contestato film su Maometto, “Innocence of Muslims”, che ha incendiato un pezzo del mondo islamico, ha riproposto il tema della discrezionalità della censura e della tutela della libertà di espressione su Internet. Il governo statunitense aveva chiesto a Google di rimuovere il video incriminato da YouTube, ma da Mountain View è arrivato un cortese rifiuto (le manifestazioni di protesta non rientrano tra le otto ragioni per eliminare un video da YouTube) salvo poi “restringere l’accesso” in quei paesi dove le proteste sono state più forti: India, Indonesia, Libia, Egitto, Pakistan e Afghanistan. Una decisione che apre più di un interrogativo su chi siano i soggetti deputati a giustificare un intervento censorio e limitare la libertà d’espressione sulla rete: i governi, i tribunali o le compagnie come YouTube, Google, Twitter e Facebook? “Parafrasando Jean Jacques Rousseau, l’uomo è nato libero e dappertutto è in catene. Nessuna frase, con le dovute attualizzazioni storiche ed interpretative, potrebbe essere più attuale. Oggi la parola libertà si trascina tra i Paesi del mondo, riempiendosi di contenuti nuovi che richiedono nuove forme di tutela e di garanzia”, spiega a Media Duemila Isabella Splendore, Responsabile Area Giuridica e Internazionale della Fieg.
“In un’epoca in cui l’informazione corre rapidissima attraverso i canali di Internet, si sente sempre più pressante il problema della ‘libertà di espressione’. Ma non sempre e quasi da nessuna parte questa viene rispettata e garantita fino in fondo. Anzi, è facile sentire parlare di censure e di divieti che minano e rendono sottile il confine della libertà, a volte piuttosto ibrido e insicuro. Il caso del trailer di “Innocence of Muslims” – sottolinea la Splendore – è l’esempio estremo, ma anche l’ennesimo, di un problema noto da tempo: l’impossibilità di mantenere, nel mondo della comunicazione digitale e globalizzata, una visione della libertà d’espressione universale e assoluta, applicata ovunque nello stesso modo. La libertà di espressione su Internet – continua Isabella Splendore – è controllata nel mondo sia da organismi pubblici che privati. Se da un lato i governi di molti Paesi impongono rigide censure sui contenuti, dall’altro sempre più spesso sono le grandi aziende a controllare, a loro discrimine, le possibilità di utilizzo dei servizi offerti. C’è chi, nei commenti di questi giorni, ha utilizzato una espressione efficace, quella cioè di una libertà di parola a geometria variabile, limitata selettivamente in alcuni Paesi con decisioni discrezionali, assunte però, nel caso specifico, non da regimi governativi censori e arbitrari ma dalle grandi aziende del mondo digitale: YouTube, Facebook, Google, Twitter”.
In Cina per esempio Google ha deciso di non piegarsi alla censura del regime e ha trasferito uffici e server a Hong Kong, mentre in altre situazioni e altri paesi si è piegato alla richieste dei Governi, dimostrando di poter avere regole di comportamento diverse in Occidente come in Oriente. Intanto Sudan e Singapore hanno bloccato l’accesso a YouTube per impedire la diffusione del film, mentre il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, commentando anche il caso delle vignette su Maometto pubblicate in Francia da Charlie Hebdo, ha definito come “assolutamente legittimo” da parte dei governi “il blocco di siti che sono oggetto di comportamenti non positivi e di istigazione all’odio”, ricordando che c’è “una linea sottile ma chiara” che passa tra la libertà di espressione e la libertà di religione (e su questo l’Italia ha “una posizione chiara” perché riconosce il reato di diffamazione religiosa).
Il 18 settembre invece il Ministero per l’Università e la Ricerca ha lanciato una consultazione pubblica sui principi fondamentali di Internet, con lo scopo di “arricchire e migliorare il documento che riassume la posizione italiana sui principi fondamentali di Internet”. Un documento che sarà portato all’Internet Governance Forum (IGF) di Baku, in Azerbaigian, e costituirà la base della discussione al Forum italiano sulla governance di Internet che si terrà quest’anno a Torino, dal 18 al 20 ottobre 2012. Centrale risulta il passaggio sulla censura: “La censura arbitraria e indiscriminata, la sorveglianza generalizzata e ingiustificata dei contenuti e degli utenti e le pratiche di restrizione di accesso alla rete e ai suoi contenuti non sono tollerati”.
Il ruolo che i colossi digitali hanno nella gestione e nel controllo dei diritti nel mondo digitale, potrebbe invece essere in parte definito dalla battaglia legale che Max Mosley ha intrapreso contro Google per la difesa della privacy. Le immagini compromettenti che misero fine alla carriera dell’ex numero uno della Fia (Federazione Internazionale Automobilismo), ripreso durante un festino a sfondo sessuale, sono ancora visibili utilizzando il più popolare motore di ricerca. Anni fa l’Alta Corte britannica sentenziò che le foto erano state scattate illegalmente, condannando il tabloid News of the World di Rupert Murdoch al risarcimento record di 60.000 sterline per violazione della privacy. Da allora le foto non sono più state pubblicate sulla carta, ma continuano a circolare su Internet ogni volta che si digita il nome dell’ex dirigente.
Mosley ha già vinto tutte le cause intentate in dozzine di Paesi nei confronti di numerosi gestori di siti web che sono stati costretti a cancellare le foto, ma ora chiede a Google di filtrare queste immagini. La società californiana si è rifiutata e Mosley ha deciso di citare Google in tribunale in Germania (inizio previsto per fine mese) e in altri Paesi europei. Una sentenza a lui favorevole dovrebbe avere ripercussioni in tutto il mondo. E’ la battaglia dell’uomo contro la macchina, come ha scritto Der Spiegel, e potenzialmente potrebbe segnare una pietra miliare nel campo giuridico dell’era digitale. Per Mosley, forte della sentenza dell’Alta Corte, le immagini sono illegali e quindi Google dovrebbe impedire che circolino per la rete. Da Mountain View invece replicano che Google non vuole e non può diventare la polizia del web. L’interrogativo che nasce è se Big G vada considerato ancora come un “semplice” motore di ricerca oppure come un editore. “YouTube, Facebook, Google, Twitter sono aziende che hanno dismesso da tempo il ruolo di “meri facilitatori” della diffusione delle notizie per intervenire in misura sempre più massiccia – anche in virtù della posizione di assoluta preminenza detenuta nei mercati di riferimento – sulla selezione delle informazioni e sul condizionamento dell’accesso alle stesse”, afferma Isabella Splendore. “Come è possibile bilanciare il bisogno di ordine e sicurezza con la protezione delle libertà civili dei cittadini? Come può la tutela dell’interesse pubblico su Internet essere affidata al mercato? Si tratta di domande a cui è difficile trovare una risposta, mentre le minacce alla libertà d’espressione e lo sviluppo della rete sembrano crescere di pari passo.
L’Unione Europea – spiega la Splendore – ribadendo che Internet è uno dei diritti inalienabili della persona, ha tracciato un solco preferenziale di intervento: occorre agire punendo le responsabilità dei singoli (diffamazione, istigazione, apologia), dove ce ne siano, ma mai chiudendo spazi di manifestazione del pensiero in modo preventivo o mettendo in moto strumenti di monitoraggio, schedatura e conservazione dei dati della navigazione degli utenti che ledano le libertà personali. Internet è vita di tutti i giorni, per la quale vanno applicate le leggi che esistono. Non una legislazione speciale o d’emergenza. A coloro che – in considerazione della ovvia assenza di confini territoriali del diritto – definiscono Internet come una no rights area, è utile invece ricordare che il mondo della rete non è una ‘sorta di Far West allergico ad ogni regola’. Le regole, al contrario, ci sono e a queste regole – giova ribadirlo – nessuno dovrebbe potersi sottrarre”.
Luca Protettì
media2000@tin.it