Il “partenariato strategico” Ue-Africa è considerato fondamentale dal presidente dell’Unione Africana, Boni Yayi, ma il Continente Nero non accetta insegnamenti da Bruxelles e ha più fiducia nella Cina

Dieci anni fa, il settimanale inglese The Economist lo definiva un continente “hopeless”, senza speranza. Resisteva solo il mito di terre lontane e sconfinate: il deserto, le savane, le foreste vergini insondabili con il loro “cuore di tenebra” che lo scrittore Joseph Conrad nel 1902 aveva scolpito con le parole e consegnato per sempre alla letteratura e alla storia. Per il resto, tranne qualche isola più o meno felice, era violenza, povertà, corruzione, dittature feroci, abbandono. Il grande sbarco della Cina, per fare un solo esempio, era ancora un progetto, non una realtà. Dunque Africa, ma senza speranza. Dieci anni dopo, oggi, può capitare invece di passare all’estremo opposto, e non solo perché la Cina ha appena annunciato che per il triennio 2012-2015 investirà, per lo sviluppo del continente, venti miliardi di euro, cioè il doppio di quanto già speso dal 2009 al 2012.

Quando l’Europa cominciò ad accorgersi dell’Africa.

Facciamo ancora un passo indietro. Era il 1871 quando l’esploratore scozzese David Livingstone, sulla sponda del lago Tanganika, incontrò il giornalista americano Henry Morton Stanley che il “New York Herald” aveva inviato in Africa sulle sue tracce. Indimenticabile la battuta che venne attribuita a Stanley: “Il dottor Livingstone, presumo…”. Ecco, quello fu il momento in cui l’Europa cominciò ad accorgersi dell’Africa dopo che per decenni questa era stata solo il serbatoio di schiavi destinati alle piantagioni americane. Ed è così che scattò lo “scramble for Africa”, il grande banchetto, la spartizione “predatoria” della diplomazia europea.

Ma proprio questa parola, “scramble”, o meglio “Africa scramble”, la ritroviamo ora nei report degli analisti finanziari più spregiudicati e nei commenti sulla Rete. Vuoi una vera speranza di investimento per il futuro? Sei alla ricerca del nuovo Eldorado? Bene, non guardare agli Stati Uniti, all’Asia e tanto meno all’Europa: qui non c’è possibilità di “creare” vera crescita, secondo i paradigmi keynesiani, e di moltiplicare il credito. Piuttosto, prendi in considerazione l’Africa, dove autorevoli banche d’affari stimano una creazione potenziale di debito garantito compresa tra i 5 e i 10 mila miliardi di dollari. Tanto è vero che alla Cina l’Europa interessa ora molto meno e che l’India, con investimenti sia pubblici che privati (in agricoltura, estrazione risorse energetiche e sviluppo servizi finanziari), sta sbarcando massicciamente nell’Africa orientale, che considera una propaggine naturale del suo sviluppo domestico.

Non è certo un caso, del resto, che oltre ai grandi gruppi petroliferi mondiali, anche multinazionali come General Eletrict, Unilever, Nestlé, Siemens, JP Morgan e molte compagnie di telecomunicazioni stiano facendo rotta sull’Africa a grandi passi. Secondo l’African Development Bank nei prossimi due anni si prevede una crescita media del Pil del 4-5 percento. Certo, ci sono immense zone talmente arretrate dove anche la parola “sottosviluppo” suona confortante. Così come sono fortissime le tensioni destabilizzanti che derivano da fattori di ordine religioso (dalla fascia saheliana, compreso il Mali, al Corno d’Africa e Somalia). Ma in un continente nel complesso povero, in termini di reddito e infrastrutture civili, figurano realtà suscettibili di crescita rapida (oltre quelle già consolidate, come il Sudafrica). Due esempi: la Nigeria (160 milioni di abitanti, lo stato più popoloso del Continente), anch’essa però attraversata da tensioni politiche e religiose, che è attesa comunque crescere nel 2013 del 7 percento. E il Ghana, 22 milioni di abitanti, “perla” economica dell’Africa sub-sahariana, detentrice del record mondiale di sviluppo nel 2011: +13 percento.

La grande differenza “luminosa” tra i due continenti.

Prendendo spunto da foto satellitari di grande impatto visivo, il professor Paolo Saraceno, presidente dell’italiano Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), rileva la grande differenza “luminosa” che c’è tra l’Europa e l’Africa: l’Europa è punteggiata di bianco, l’Africa (ricca di materie prime, di fonti energetiche e di terre fertili ma priva di impianti di irrigazioni, centrali per produrre energia elettrica e reti per trasportarla) non ha luci. È al buio come il suo vecchio “cuore di tenebra”. Tre città africane hanno una popolazione superiore a quella di Londra (circa 8 milioni di abitanti), la più popolosa delle città europee: il Cairo, che con 15 milioni di abitanti si nota appena nella foto; Lagos (anch’essa si vede a stento) che ha due volte e mezzo la popolazione della Svizzera; Kinshasa-Brazzaville che, pur avendo la popolazione di Londra, è di fatto invisibile. Questo significa che la maggior parte degli abitanti di queste città vive senza energia elettrica, come vivevano trent’anni fa gli abitanti della Cina e dell’India. Ma questo significa anche una grande potenzialità di sviluppo.

Sta crescendo, innanzitutto, una classe media (35,2 percento della popolazione, 300 milioni di persone) che usa cellulari e internet. E proprio l’enorme diffusione dei telefonini (600 milioni, uno ogni 1,5 abitanti), ha risolto il problema delle comunicazioni e, in qualche modo, ha accresciuto anche le potenzialità della democrazia. La stessa Primavera araba del 2011, osserva Saraceno, è figlia di questo cambiamento. E con i telefonini è cresciuto l’uso di internet. Google ha calcolato che nel 2010 i contatti africani sono stati 5,2 miliardi contro i 3,7 dell’Europa. In Kenya, vicino a Nairobi, sta nascendo un “avamposto” della tecnologia, la “Konza Technology City”, dotato di un investimento di 7 miliardi. Il prossimo passo, conclude il professor Saraceno, sarà l’energia elettrica, senza la quale non c’è sviluppo.

Grandi potenzialità di crescita, ma in quale quadro di confronto politico intercontinentale? All’Europa (e agli Stati Uniti) l’avanzata di Pechino non piace. Quella cinese viene definita la “politica del libretto degli assegni” che procede senza andare troppo per il sottile, visto che ha la fortissima necessità di accedere a minerali e idrocarburi per finanziare la sua crescita. Ma sbaglierebbe chi pensasse che l’Europa ha in Africa tutte le porte aperte. Nel corso dell’ultimo (luglio 2012) Forum di cooperazione Cina-Africa svoltosi a Pechino, il presidente sudafricano Jacob Zuma è stato netto: “Ci fa particolarmente piacere il fatto che la relazione dei paesi africani con la Cina sia una relazione tra pari e che gli accordi stabiliti siano mutualmente redditizi. Siamo convinti che le intenzioni della Cina siano diverse da quelle dell’Europa, che continua nel tentativo di influenzare l’Africa cercando un guadagno esclusivo”.

È la globalizzazione ad aver complicato le cose.

Il problema è che l’Europa (fresca di un premio Nobel per la pace) – che pure per prima aveva avviato una politica di cooperazione con l’Africa (più della metà dei fondi destinati ai paesi poveri viene proprio dall’Europa) e che per la sua storia coloniale aveva finito poi, attraverso l’immigrazione e l’ “impasto” sociale che ne è derivato, ad intrecciare una storia comune ben diversa – è stata spiazzata dal processo di globalizzazione e dagli accordi in sede di World Trade Organization (WTO) e fatica a ridefinire gli accordi economici e commerciali. Il “partenariato strategico” Europa-Africa è considerato fondamentale dal presidente del Benin e presidente dell’Unione Africana, Boni Yayi, ma a sua volta la stessa Africa non si presenta coesa agli appuntamenti e non accetta “lezioni” dall’Europa.

D’altra parte, il rapporto-pagella “Scorecard 2012” del prestigioso think tank European Council on Foreign Relations (ECFR) considera in generale la politica estera di Bruxelles “appena sufficiente”. E non a caso, visto ad esempio il fallimento, per Nord Africa e Medio Oriente, della politica di “vicinato” europea e il progetto abortito dell’Unione Mediterranea.

Nessuna sorpresa anche sul fatto che l’Europa non sia riuscita a bloccare o contenere il radicamento del fondamentalismo islamico in Africa. Privo di una strategia unitaria non solo militare ma soprattutto politica, ciascun Paese – si veda la tumultuosa esperienza della Primavera araba – va dove può e come può, con alterne fortune. Tante luci accese ma senza un cuore.

Guido Gentili
media2000@tin.it
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