Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, entro il 2017 gli USA diventeranno il primo produttore di petrolio al mondo e, entro il 2030, potranno esportare. Fondamentali i miglioramenti sul piano dell’efficienza energetica

Da decenni si afferma come un assioma che gli americani stiano esaurendo le proprie riserve di petrolio. Ora invece una relazione dell’International Energy Agency (IEA) rivela che gli Stati Uniti supereranno l’Arabia Saudita come primo paese produttore di petrolio già attorno al 2017 e diventeranno un esportatore netto per il 2030.

Un aumento della produzione petrolifera, insieme a politiche efficaci per incoraggiare l’efficienza energetica, renderanno – secondo la IEA – gli USA “praticamente autosufficienti” in termini energetici tra una ventina d’anni; si tratta, secondo l’agenzia, di “un drammatico rovesciamento del trend” in corso nella maggior parte dei paesi sviluppati.

Per gli analisti, lo spettacolare recupero dell’autosufficienza dipenderà per circa il 55 percento dall’aumento della produzione e per il restante 45 percento dalle migliorie nell’efficienza energetica – soprattutto quelle che derivano dai nuovi standard per abbassare i consumi delle automobili.

La ripresa della produzione di idrocarburi negli Stati Uniti deriva per lo più dall’introduzione di nuovi metodi di estrazione del petrolio e del gas dalla roccia scistosa. Tecniche come il “fracking” – da “hydraulic fracturing” – o la perforazione orizzontale hanno permesso di sfruttare riserve in precedenza irraggiungibili – mandando a picco tra l’altro i prezzi del gas naturale.

La IEA prevede infatti che gli USA supereranno la Russia come primo paese produttore nel mondo di gas naturale già nel 2015.

Tutto ciò non comporta necessariamente che i costi generali dell’energia da idrocarburi caleranno più di tanto in Nord America perché il petrolio è una commodity di quelle che gli economisti definiscono “fungibili” – molto sinteticamente, “soggetta alla reciproca sostituzione” con, per esempio, la produzione in un altro paese.

In altri termini, quando gli idrocarburi prodotti dagli Stati Uniti sono quotati meglio all’estero, si ha un aumento delle esportazioni e una conseguente diminuzione della disponibilità interna. Viceversa, quando i prezzi all’estero diminuiscono, la quantità di prodotto disponibile sul mercato nazionale è maggiore dal momento che ne viene esportato di meno; ne derivano un aumento delle forniture e una diminuzione del prezzo.

Laddove, invece, i costi da sostenere per il trasporto degli idrocarburi, ad esempio del gas naturale, sono elevati, l’effetto positivo sull’economia nazionale sarà probabilmente molto maggiore. La IEA prevede, ad esempio, che i prezzi dell’energia elettrica statunitense possano diminuire fino a diventare la metà di quelli europei, principalmente a causa dell’aumento del numero di centrali energetiche che si alimentano grazie al gas naturale economico e di difficile esportazione.

La riconquista inattesa dell’indipendenza energetica dopo tanti anni (la produzione statunitense di petrolio raggiunse un picco nei primi anni Settanta, registrando poi un costante declino) può influire solo limitatamente sull’economia americana in termini di prezzi al consumo; essa, però, avrà un impatto enorme sul piano della sicurezza energetica, vale a dire della certezza delle fonti.

Improvvisamente e inaspettatamente, nel “Grande gioco” della geopolitica internazionale, le carte del mazzo vengono rimescolate.

Negli ultimi decenni, la diminuzione delle riserve americane di energia ha fatto sì che gli Stati Uniti dipendessero in misura sempre maggiore da fornitori stranieri. In considerazione di ciò, dalla fine della Guerra fredda in poi, una delle principali priorità della politica estera statunitense è stata quella di assicurare le fonti di energia del paese.

Le vie di rifornimento per coprire il “buco” nella produzione sono state lunghe – girando il mondo intero – e difficili da proteggere. Non sorprende che le due più importanti iniziative militari americane dai tempi del Vietnam sono state la Guerra del Golfo del 1991 – per la difesa di un produttore di petrolio, il Kuwait, da un’invasione irachena – e, una dozzina d’anni dopo, nel 2003, l’invasione dello stesso Iraq allo scopo di procurare la caduta di Saddam Hussein.

In modo particolare nel secondo caso – e al di là di quelle “Armi di distruzione di massa”; mai trovate e comunque mai una minaccia diretta per l’America del Nord – l’obbiettivo strategico americano è parso essere quello di proteggere lo status quo negli Emirati del Golfo e specialmente nell’Arabia Saudita.

La straordinaria sopportazione degli USA nei confronti dell’Arabia Saudita – il paese che ha dato i natali a 15 dei 19 terroristi di Al-Qaeda che hanno abbattuto il World Trade Center – dà un’idea di quanto il Governo americano sia stato disposto ad ingoiare pur di garantire i rifornimenti energetici che arrivano dal Medio Oriente.

Seppure non vedranno mai di buon’occhio il caos nel Golfo, è probabilmente valido il sospetto che il “punto di ebollizione” diplomatico degli Stati Uniti possa scendere man mano che i produttori arabi perderanno la capacità di danneggiare e forse anche fermare l’economia americana.

È interessante notare che tale minaccia potrebbe eventualmente spostarsi verso un nuovo bersaglio.
Lo stesso petrolio mediorientale che una volta andava verso gli USA sembrerebbe destinato a prendere la strada della Cina per soddisfarne l’insaziabile domanda.
Il fenomeno è già evidente nel caso del carbone americano che, di fronte alla richiesta calante nel mercato domestico, sempre più va a finire in Europa o in Cina.

Se l’eclatante successo nel sanare la piaga della dipendenza energetica sia una buona notizia o meno dipende naturalmente anche dal punto di vista dell’osservatore.

Gli attivisti del riscaldamento globale per esempio ne sono basiti. Speravano che l’energia sempre più scarsa e sempre più costosa potesse avere l’effetto di limitare la produzione di gas serra. Sebbene il gas naturale, la nuova risorsa chiave americana, sia largamente apprezzato per le sue qualità “verdi” in quanto riduce considerevolmente le emissioni di CO2, i climatologi impegnati guardano invece con sospetto ogni aumento della disponibilità energetica.

Nel contesto, potrebbe valere la pena ricordare che il sorprendente risultato americano è stato reso possibile non solo dallo sviluppo di nuove tecniche di estrazione, ma anche attraverso grandi migliorie nell’efficienza energetica.

James Hansen

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