Le aree “difficili”, come l’ambiente polare e le nuove frontiere del non convenzionale, necessitano di strumenti sempre più sofisticati, ma sono anche quelle con il maggior potenziale
La nuova frontiera dell’energia è nelle aree non convenzionali, dall’Artico all’ultra deepwater: zone difficili da esplorare e che richiedono tecnologiche sempre più sofisticate. Un ghiotto scenario per i provider di soluzioni tecnologiche per l’Exploration & Production come ION Geophysical. Lo ha spiegato ad Oil magazine Joe Gagliardi, Director Arctic Solutions & Technology della società.
Quali sono le aree del vostro business in maggiore espansione?
Noi siamo davvero focalizzati sulle esplorazioni di frontiera. Lavoriamo in aree che richiedono maggiore attenzione da parte delle compagnie. Sulla mappa geologica globale, a noi piace lavorare nelle zone che presentano ancora dei punti interrogativi. Facciamo analisi articolate sulle architetture di base con l’obiettivo di offrire risposte ai nostri clienti su scenari geologici complessi. Il nostro obiettivo è quello di aiutare le società a capire se vale la pena esplorare un determinato sito entro i successivi 5 o 10 anni.
Quali sono oggi le principali sfide in questo settore?
Riteniamo che i frutti delle esplorazioni nelle aree convenzionali diventino sempre più rari, cioè a dire che le opportunità di esplorazione facili diventano sempre meno. In questo contesto, aree come l’Artico acquisteranno progressivamente maggiore importanza. Noi riteniamo che le aree di maggior sfida, come l’ambiente artico e le nuove frontiere del non convenzionale siano anche quelle con il maggior potenziale per l’E&P. ION è attrezzata proprio per cercare di vincere queste sfide.
Le sfide in queste aree di frontiera sono solo tecnologiche o anche la qualità del petrolio e gas presenti è diversa?
Noi abbiamo due ordini di problemi. Il primo è riuscire ad ottenere sufficienti informazioni per determinare la qualità delle esplorazioni. Superato questo primo scoglio, occorre capire se sussiste la possibilità dal punto di vista tecnologico e ingegneristico di esplorare in quel contesto. In ogni caso è una scelta che spetta alle società. Ci sono contesti meno complessi dal punto di vista ambientale in riferimento alle aree ghiacciate, ma con rocce che presentano maggiori rischi. Alcune compagnie preferiscono avventurarsi in zone complicate da esplorare, quindi più impegnative dal punto di vista ingegneristico, ma dove si ha la certezza di trovare la miglior qualità di roccia. A guidare le scelte, in una direzione o nell’altra è – oltre alla filosofia di base del gruppo – l’orizzonte temporale a disposizione per portare sul mercato il petrolio e il gas. Se si ha fretta e si vuole lavorare nell’Artico, allora si tende a correre più rischi dal punto di vista della qualità delle rocce ma con la possibilità di trivellare subito. Se si ha più tempo a disposizione, si possono concentrare i rischi sulle tecniche ingegneristiche per capire come riuscire a produrre in un contesto di rocce di alta qualità.
Si può associare una strategia o l’altra alle dimensioni delle compagnie petrolifere?
Nelle zone artiche il numero delle società in grado di operare è sicuramente inferiore, per l’entità dell’investimento necessario e anche per l’orizzonte temporale richiesto. Gli ingenti costi associati all’esplorazione nell’Artico rappresentano sicuramente una discriminante per l’entrata degli operatori più piccoli, rispetto ad esempio al Golfo del Messico o all’Africa Occidentale. Viviamo una fase in cui le società lavorano singolarmente o in piccoli consorzi per assicurarsi le licenze nelle zone anche più estreme, ma poi creano alleanze per condividere il programma industriale dal punto di vista dei costi nella fase di esplorazione e produzione. Un simile trend si manifestò anche nel Golfo del Messico quando cominciò la fase del deepwater. Ci fu prima una corsa ad accaparrarsi quante più licenze possibile e poi nacquero dei consorsi per condividere i costi della fase industriale. Ho la sensazione che nell’Artico succederà qualcosa di simile.
Se l’Artico è una nuova frontiera, che dire delle enormi scoperte offshore in Tanzania e in Mozambico, considerate di prima classe? È esagerato affermare che l’Africa orientale sia il nuovo Qatar?
L’Africa orientale è cruciale per il nostro potenziale di crescita e penso che sia una zona di classe mondiale per l’esplorazione. In prospettiva giocherà un ruolo fondamentale nel mix energetico. Non è ancora chiara però la direzione che queste commodity prenderanno, se verso il Far East o verso l’Europa. Ciò non toglie che sia una zona grandiosa per il petrolio.
Crede nell’export di LNG USA sull’onda della rivoluzione dello shale gas?
È una questione di mercato. Dipenderà dalla domanda e dalla capacità del Far East di assicurarsi le risorse energetiche necessarie per far muovere le loro economie. Ma il non convenzionale potrebbe avere un ruolo anche in Europa, incidendo sui prezzi del gas naturale nel Vecchio Continente. Quello del gas è un mercato molto regionale, ma potrebbe diventare economico in alcune regioni esportare gas.
Lei esclude dunque una maggiore globalizzazione nei prezzi del gas?
Lo ritengo improbabile. Soprattutto perché il gas naturale è difficile da trasportare.
Quali sono i rischi connessi all’interpretazione dei dati che voi raccogliete? Quanto sono pressanti i vostri clienti sul timing dei feedbacks?
Le compagnie petrolifere pretendono risposte sempre più accurate in tempi sempre più ristretti. Ma c’è una differenza tra la semplice raccolta di dati e la possibilità per le compagnie di utilizzarli. Oggi noi forniamo all’industria essenzialmente due tipi di informazioni: sulle formazioni rocciose e sul potenziale di petrolio e gas. Si effettua una misurazione diretta, trivellando fino all’obiettivo prefissato per capire là cosa c’è. Il problema è che questa informazione riguarda con precisione solo la zona dove si è perforato e non le aree circostanti che vengono definite solo grazie a misurazioni indirette. Generalmente l’esplorazione sismica fornisce informazioni sulle formazioni rocciose e su come sono strutturate. Può dare indicazioni anche sugli idrocarburi presenti e consente di fare previsioni sulla qualità delle rocce. Nel non convenzionale, in particolare, siamo diventati davvero creativi pur di capire cosa si può trivellare. Ovviamente le informazioni non essendo tutte ottenute con misurazioni dirette non sono mai precise al 100 percento. Diciamo che sono veritiere all’80-85 percento. Ma questo è solo il punto di partenza perché sulla base di queste informazioni poi si decide dove procedere a misurazioni dirette per avere la certezza assoluta. La sfida nel nostro settore, ed è ciò a cui stiamo lavorando, è quella di fornire anche dati preliminari il più accurati possibile.
Come posizionerebbe ION rispetto a giganti del settore come Schlumberger, Backer Hughes e Halliburton?
Personalmente ho molto rispetto per queste società ma non vorrei essere uno di loro. Noi abbiamo trovato una nicchia per essere utili ai nostri clienti con servizi di qualità in tempi molto rapidi. Noi siamo incentrati sul non convenzionale, terrestre o marino e sull’esplorazione artica. È questa la nostra specializzazione.
Qual è secondo lei la principale innovazione tecnologica per l’E&P degli ultimi 30 anni?
Sicuramente l’esplorazione 3D e la possibilità di avere una stazione di lavoro su ogni desktop. L’evoluzione verso il 3D negli anni Ottanta ha davvero guidato l’esplorazione. Poi l’attenzione si è spostata – e per molti versi siamo ancora in questa fase – sulle informazioni relative alle proprietà delle rocce che le analisi sismiche possono fornire e da questo punto di vista penso che ION abbia fornito un contributo importante.
Ora siamo concentrati sull’Oceano Glaciale Artico che riteniamo la nuova frontiera da esplorare.