San Miniato, Toscana, anzi, il centro della Toscana: dalla terrazza che s’affaccia sulla piana, si vedono Vinci, il paese di Leonardo, e Fucecchio, il paese di Montanelli. Boccate d’aria buona, italiana e professionale. Si parla di Napoleone alla Fiera del Tartufo. Che c’entra? Sono due glorie locali, Napoleone e il tartufo. La famiglia dei Bonaparte è originaria di qui e lui giovanotto ci venne a fare visita a uno zio canonico, per avere le patenti di nobiltà che servivano per la carriera militare. Il tartufo non c’è bisogno che ve lo spieghi: venite voi da queste parti un week-end d’autunno avanzato e ve ne renderete conto da soli.
E che c’entro io, con Napoleone e con il tartufo? Quasi nulla con il primo, poco con il secondo, ché lo mangio una volta all’anno. Ma l’amico e collega Luciano Scarzello m’ha coinvolto in un dibattito – leggero- su Napoleone, l’Europa, la libertà di stampa, insieme al professor Sergio Soave, docente di storia, che ne sa mille volte più di me (e si sente). Il tutto nel 200° anniversario dell’esilio all’Isola d’Elba.
Al dibattito, ci sono pure emissari dell’Elba, oltre al giovane Napoleone e allo zio canonico. Arrivo avendo come breviari due libri recenti di due bravi colleghi, che hanno entrambi trattato un aspetto di Napoleone particolare: Roberto Race ha scritto ‘Napoleone il comunicatore – Passare alla storia non solo con le armi’, edizioni Egea; e Rocco Tancredi ha scritto ‘Napoleone giornalista, lungimirante, ma interessato’, Fausto Lupetti editore.
Leggendo Roberto e Rocco, ho realizzato, preparandomi al dibattito, che Napoleone Bonaparte è stato il primo potente a doversi confrontare con una stampa libera, perché il fiorire di testate d’orientamento diverso durante la Rivoluzione francese non ha confronto con nessun altro periodo storico precedente – e neppure con la coeva stampa anglosassone, meno vivace e meno tumultuosa di quella francese dell’ultimo squarcio del XVIII Secolo -.
E, al di là delle sue doti di comunicatore e della sua vocazione a fare l’inviato di guerra, come reagì Napoleone alla libertà di stampa? Come, dopo di lui, hanno reagito tutti i dittatori degli ultimi due secoli: sopprimendola in patria; e cercando, invece, di fomentarla altrove, tanto per creare grattacapi ai suoi avversari. Qualche cifra e due citazioni –fonte, il Tancredi-: dopo il 1789, c’erano a Parigi 74 giornali d’ogni tendenza; all’instaurazione dell’Impero, ne rimasero 14, poi ridotti a 4 nel 1811 per decreto napoleonico.
Napoleone stesso diceva di temere “tre giornali più di 100 mila baionette”. Mentre i suoi nemici gli riconoscevano l’abilità nel manipolare l’informazione: per il cancelliere austriaco Metternich, quello dell’Italia “espressione geografica”, “le gazzette valgono a Napoleone un’armata di 300 mila uomini”.
E come reagirono i giornalisti agli attacchi alla libertà di stampa? Molti, purtroppo, non reagirono: piegarono la schiena e si misero al servizio del potente. La parabola del Moniteur, organo ufficiale dell’Impero, è umiliante, per la categoria: esiliato, Napoleone diventa l’antropofago, l’orco, la tigre, il mostro, il tiranno, l’usurpatore; ma il giorno che, fuggito dall’Elba, giunge a Parigi torna a essere l’Imperatore e “sua Maestà imperiale”. Il tutto a firma dello stesso direttore, tale Panckoucke.
Cose che succedevano due secoli or sono. Ve lo immaginate oggi? Epigoni di Napoleone non ne vedo molti in giro; ma i Panckoucke non sono mica spariti, sempre pronti a farsi un giro d’elzeviro con il potente di turno.

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.