Giovannini e l’addio alla FIEG: “Battaglie vinte e battaglie perse”.
Nel 1996 Giovannini lascia la Fieg, nel suo ultimo discorso  (di seguito) afferma: “ …dopo un ventennio non deprecato come l’altro più famoso: “La Federazione si è ormai imposta come il più autorevole centro di elaborazione di documenti, dati e analisi”. TuttiMedia, da lui creato proprio nel 1996, ha alle spalle venti anni di analisi sull’evoluzione tecnologica della società e del mondo dei media. In questi giorni dedicati alla fusione dei grandi giornali, entrambi cari a Giovannini, La Stampa il suo giornale, la Repubblica per la novità che ha rappresentato. Oggi che si apre una nuova era per il mondo dei giornali italiani ricordare e riflettere sulla strada che ha portato fino qui mi è sembra importante anche perché alcuni passaggi del testo sono attuali anche se riferiti a contesti e attori differenti. Marco Benedetto, allora amministratore del’Editoriale “La Repubblica” e dell’”Espresso” Gruppo Espresso lo ha salutato così nel testo pubblicato su l’Editore giugno 1996 “Giovanni Giovannini diventò presidente della Fieg quando l’editoria italiana attraversava una profonda crisi: lascia mentre ancora una volta il mondo della carta stampata vive un periodo di grande difficoltà, stretto tra il dilagare della televisione e l’emergere dei nuovi mezzi elettronici…”.
“Durante la sua i giornali italiani hanno vissuto una radicale trasformazione tecnologica e industriale e hanno raggiunto il massimo livello diffusionale”.
Cosa auspicabile oggi qualsiasi sia la piattaforma. Ma a questo proposito Giovannini nell’intervista a La Stampa (6 giugno 1996) afferma che “ il giornale elettronico non segnerà la fine dei giornali di carta, ma la grande espansione dei quotidiani l’abbiamo alle spalle”. Del giornale elettronico dice “non è un veicolo di notizie ma un organizzatore di notizie. Non ha senso mettere i giornali in rete così come sono. All’estero esiste già una una nuova figura professionale, i senders, che riorganizzarono l’informazione così come ti serve”.
Conclude l’intervista con un’affermazione. “Da oggi mi occupo di multimedialità, un mondo che sta esplodendo, su cui lavorare perché ancora circondato da ignoranza. “Lo ha fatto con l’Osservatorio Tuttimedia, associazione che da allora continua a guardare in avanti per anticipare i cambiamenti ed evitare i fallimenti”.

“Nel momento in cui lascio la presidenza della Federazione italiana editori giornali, dopo un ventennio che spero non «deprecato» come l’altro più famoso, mi consentirete un ultimo bilancio dopo i tanti che avete dovuto sopportare durante un arco di tempo così lungo e difficile.
Ma tranquillizzatevi: non voglio infliggervi lunghi discorsi che odio in generale e tanto più quando riguardano me stesso.
Ricordo che quando vent’anni fa assunsi la presidenza della Fieg, notai che i nostri incontri assomigliavano «ad improvvisate assise di capi tribù che, incrociandosi dal Nord al Sud, affrontano all’improvviso problemi senza troppa preparazione, improvvisando non di rado sui temi più disparati». Se confrontiamo la nostra Federazione di oggi con quella così descritta venti anni fa – e c’era molta diplomazia nel mio discorso – dobbiamo riconoscere l’importanza del cammino che abbiamo percorso. In tutti i settori di interesse della comunicazione la Federazione si è ormai imposta come il più autorevole centro di elaborazione di documenti, dati ed analisi.
In questa stessa sala qualche settimana fa abbiamo presentato alla stampa due documenti di analisi del nostro settore che hanno suscitato una eco eccezionale sui giornali ed anche sulla Tv e che credo poche altre organizzazioni in Italia e all’estero sarebbero capaci di realizzare. Tra parentesi; molte delle cose che avrei voluto dire oggi sulla situazione del nostro settore e sulle sue prospettive sono contenute in quegli studi ai quali quindi vi rimando.
Ma tornando al «come eravamo», dobbiamo riconoscere che la Fieg, che era poco più di un club, il cui cemento era solo la forza dei suoi avversari, è diventata un centro di elaborazione di idee al quale tutti coloro che vogliono occuparsi di problemi della comunicazione sono costretti a far riferimento.
Un’altra battaglia che possiamo dire vinta è stata quella di rivalutare i giornali come imprese. Ricordo ancora i fumosi discorsi di venti anni fa sulla diversità  delle imprese editrici, che poi conducevano sempre ad un’unica conclusione: l’editore deve solo pagare i conti e non deve osare intromettersi nella gestione dell’informazione. Ricordo ancora le ciniche alzate di spalle che venivano opposte alla nostra denuncia dei deficit strutturali dei giornali, fondate su quell’altrettanto cinico adagio missiroliano secondo il quale i giornali sono voci passive di bilanci attivi.
Quante volte abbiamo sostenuto il concetto – facendolo diventare quasi uno slogan – che l’equilibrio economico dei giornali è la condizione necessaria, anche se forse non sufficiente, della libertà di stampa? Quando, per la prima volta, «osammo» titolare un nostro studio «L’industria dei giornali» suscitammo polemiche perché avevamo osato contaminare la sacralità dell’informazione con la prosaicità dell’industria e con tutto ciò che necessariamente le sta dietro: i bilanci, la necessita del pareggio o meglio ancora dell’utile, l’equilibrio trai costi e i ricavi… Da allora, diciamo la verità, di cammino ne abbiamo fatto tanto. I vincoli di compatibilità economica erano respinti sdegnosamente dalle nostre controparti sindacali fautrici, più che in ogni altro settore, di quella scellerata sciocchezza che si chiamava “salario variabile indipendente”. Oggi non c’è nessuno che osi più negare almeno a parole — la necessità della compatibilità tra costi e ricavi: c’è certo da battagliare senza tregua per difendere nella gestione quotidiana delle imprese il rispetto di quei vincoli, ma almeno non siamo più guardati come marziani solo perché pretendiamo di non spendere di più di quanto ricaviamo.
Ma non è solo sul piano culturale che ci siamo imposti. Consentitemi solo qualche flash, perché se dovessi elencarvi in dettaglio tutte le iniziative che abbiamo condotto a termine contraddirei la promessa di brevità che ho appena fatto.
Sul piano sindacale siamo riusciti ad infrangere i veti tecnologici che impedivano alla stampa di svilupparsi creando così le premesse di una vigorosa innovazione che ci ha portato dagli ultimi ai primi posti del mondo per modernità delle strutture produttive. Abbiamo abbattuto tutti i paletti che recintavano le tipografie e garantivano il dominio assoluto ed esclusivo del tipografo sul trattamento dei testi. È così che siamo riusciti a produrre più di prima con il 30 per cento del personale in meno, con un incremento di produttività tra i più significativi tra quelli realizzati dal settore industriale.
Sul piano legislativo siamo riusciti ad ottenere una legge che per sette anni – dal 1981 al 1987 – ha costituito, pur con tutte le sue lacune ed i suoi ritardi, un efficace sostegno allo sviluppo della stampa quotidiana e periodica.
Siamo riusciti a restituire agli editori di quotidiani la libertà di fissazione del prezzo del loro prodotto, eliminando quell’infame strumento del prezzo amministrato che era responsabile di molti dei guasti del settore.
Sul piano dell’Iva, se abbiamo perduto la battaglia per tenere il giornale fuori dal suo campo di applicazione, siamo almeno riusciti – e spesso ci dimentichiamo di quale vantaggio ciò abbia rappresentato – ad ottenere un metodo di applicazione che ne riduce notevolmente l’incidenza, vincendo, così, con un sano pragmatismo, laddove gli editori di molti altri paesi hanno perduto.
E tra i risultati positivi vorrei citarne due che, solitamente, non vengono giudicati tali, anzi vengono giudicati negativi. Il primo è quello della esplosione della concorrenza nel nostro settore. Venti anni fa, quasi ogni giornale coltivava un suo orticello riparato dalla concorrenza. Oggi ogni giornale gioca in campo aperto. Quotidiani locali contro regionali, regionali contro nazionali, provinciali contro tutti, quotidiani contro periodici, periodici contro periodici, stampa contro televisione.
Qualcuno, di tanto in tanto, evoca ancora con rimpianto il buon tempo antico, quando il mercato rappresentava per la stampa solo un luogo fisico dove vendere e non una dimensione imprenditoriale. Per parte mia, e so benissimo di esprimere un principio non certo largamente condiviso, ritengo, invece, che proprio l’acquisizione dello spirito concorrenziale sia stata la grande conquista dell’editoria italiana. E continuando sul filo del paradosso impopolare, penso che questa nuova atmosfera renda più difficile, ma più prezioso il compito di un’organizzazione di categoria impegnata certo a difesa della libertà di mercato, ma anche alla ricerca di ogni ragionevole mezzo per impedire o limitare eccessi, squilibri, soprusi.
Un secondo aspetto positivo — sempre per rimanere in chiave di apparente paradosso — è la scarsa simpatia, per non dire l’ostilità, di cui spesso godiamo da parte di molti politici di ogni colore. Ricordiamo ancora tutti l’opinione espressa dal leader di una importante forza politica secondo il quale lasciare i giornali invenduti in edicola è un dovere civico. Ricordiamo anche come gli fece subito eco il leader della forza politica opposta dichiarandosi, per una volta, d’accordo con lui. In molti, allora, gridarono allo scandalo. Personalmente, invece, ne trassi la conferma che la stampa italiana, se riesce a coalizzare destra e sinistra nell’esecrazione, evidentemente fa il suo dovere.
Questa forse è l’unica vera «par conditio» che si riesce ad assicurare e che si deve riuscire ad assicurare: quella del «cane da guardia» che non guarda in faccia nessuno e che attacca equanimemente a destra e a sinistra, senza timori reverenziali per nessuno. E su questo piano, consentitemi di dire, contro le tante — troppe — prefiche che popolano il nostro mondo, che la stampa italiana è tra le più libere al mondo e che la sua vivacità, il suo pluralismo, la sua indipendenza di giudizio trovano pochi riscontri nel panorama mondiale. Se errori sono, sono errori da eccesso e non certo da difetto, ma, come ci disse una volta il presidente Pertini, di libertà di stampa non ce ne è mai troppa.
Diceva un autorevole giornalista inglese: “I rapporti tra stampa e governo — ma noi potremmo dire tra stampa e potere — si son deteriorati, si stanno deteriorando, ma per nessun motivo si dovrebbe permettere che migliorino”.
Ovviamente non tutto il bilancio è positivo. La più bruciante sconfitta è stata sul piane dell’allargamento della platea degli acquirenti dei giornali. Nel 1990 ci sembrava a  portata di mano l’obiettivo di 7 milioni copie al giorno per i quotidiani, che poi è rapidamente sfumato e anno dopo anno registriamo o piccoli cali o piccoli avanzamenti, ma sempre sotto il tetto del ’90.
Ma c’è da chiedersi se in un paese nel quale non funzionano i trasporti aerei, marittimi, postali, le comunicazioni di ogni tipo, non funziona il sistema bancario, non c’è un’industria della carta da giornale, un sistema distributivo arcaico ne parlerò di qui a poco — c’è un Mezzogiorno afflitto da problemi economici e sociali drammatici, riuscire a vendere circa 6 milioni e mezzo di quotidiani al giorno e altrettanto di periodici a settimana, non rappresenti un vero e proprio miracolo.
E l’accenno al Mezzogiorno deve esser ( subito sviluppato. È nel Mezzogiorno la fonte del nostro distacco dagli altri paesi europei. Nel Mezzogiorno abbiamo una percentuale di copie vendute per abitanti che è meno della metà di quella del Centro Nord, il che vuole dire che, se nel Sud si vendesse come nel Centro Nord, venderemmo otto milioni di copie al giorno, all’incirca come in Francia.
So che i miei amici meridionali mi obietteranno che in realtà la lettura per copia venduta è nel Sud più alta che nel Nord e che se il rapporto si facesse sul reddito degli abitanti invece che sugli abitanti, si scoprirebbe che nel Sud si spende per i giornali più o meno la stessa percentuale del reddito del Nord. Sono tutte obiezioni giuste. Resta, però, il fatto che il Sud, per una serie di motivi non imputabili al Sud stesso e ancor meno agli editori del Sud, esprime il suo ritardo nei confronti del resto del paese anche in termini di acquisto di giornali.
La Fieg deve farsi carico di questo problema dando la priorità ad una serie di programmi che forzino la penetrazione del giornale nel Mezzogiorno. Una iniziativa da noi lanciata, quella del «Treno per la stampa» — diretta all’obiettivo strategico di avvicinare i giovani alla stampa e che ha avuto un grande successo — è partita proprio dal Sud per risalire al Nord. Anche simbolicamente, per una volta, abbiamo voluto che si cominciasse dal Sud e non, come sempre avviene, al contrario. E’, ripeto, solo una piccola cosa, che ha un valore simbolico, ma spero che diventi l’inizio di un nuovo modo di affrontare i problemi dell’editoria. E, per parte mia, vorrei ancora una volta esprimere tutta la nostra simpatia, solidarietà e, perché no, ammirazione ai nostri colleghi che, in un contesto sociale difficilissimo, con una situazione economica tremenda, continuano — rischiando non solo “di” persona, ma “la” persona — ad assicurare quotidianamente alle popolazioni locali l’informazione, dando così loro voce e speranza in una situazione che di speranze ne autorizza ben poche.
L’altra sconfitta, che è poi una delle cause fondamentali del nostro insuccesso diffusionale, è stata quella sull’allargamento della rete di vendita dei giornali. Forse nemmeno molti di voi sanno quali sforzi, quante pressioni, quante fatiche abbiamo affrontato anche in questo campo. Siamo al paradosso: anche gli edicolanti sono d’accordo sulla sperimentazione di nuovi canali di vendita, ma il Parlamento non trova il tempo di approvare uno straccio di legge, che non costerebbe una lira allo Stato e che consentirebbe di fare almeno un test limitato nel tempo e nello spazio. (Anche qui se dobbiamo dirci con onestà che, nella neghittosità dei pubblici poteri, di passi avanti ne abbiamo fatti tanti per conto nostro: il numero dei punti vendita è passato da 29.332 del 1980 a 37.469 del 1995). Ed ora non siamo più solo noi a sostenere che il sistema va cambiato: è, per esempio, anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha invitato il Parlamento e il governo a intervenire per modificare una legge che giudica lesiva del corretto dispiegarsi della libera concorrenza.
Se tutto questo lavoro non si è ancora tradotto in risultati concreti è anche, a mio avviso, per colpa di una carenza istituzionale grave, che ho denunciato molte volte attirandomi anche le ire di qualche sottosegretario suscettibile, e che consiste nella mancanza di un interlocutore nell’ambito del governo. Sappiamo che i problemi della stampa sono affidati tradizionalmente al sottosegretario alla presidenza del Consiglio il quale, però, è anche il primo collaboratore del presidente del Consiglio ed ha, quindi, troppe cose da fare per potersi occupare seriamente del nostro settore. Credo che non si potranno risolvere i nostri problemi se non avremo finalmente all’interno del governo un interlocutore autorevole che sia competente per tutto il settore delle comunicazioni di massa, in modo da poter cogliere le interrelazioni tra i diversi problemi che sono invece affrontati oggi da soggetti diversi con un’ottica parcellizzata contraria a quella visione di insieme che è assolutamente necessaria, specie con l’esplosione di tutte le forme di multimedialità che stanno per cambiare il modo di comunicare, di vivere tra gli uomini. Anche nel nuovo governo la delega «per la stampa» è affidata ad un sottosegretario che ha molti altri compiti da svolgere. Confidiamo che la qualità degli uomini possa, comunque, consentire di avviare al più presto un dialogo più costruttivo e più concreto di quello che è stato possibile nel recente passato.
Un altro grande tema sul quale non possiamo certo vantare vittoria è quello concorrenza con il mezzo televisivo. An, qui è prevalsa la logica dei provvedimenti settoriali. Si è disciplinata la televisione, trascurando le conseguenze che quella disciplina avrebbe avuto sulla stampa e ignorando totalmente il travolgente incontro tecnologico, finanziario e sociale tra Tv e telecomunicazioni. Abbiamo cercato di arginare la voracità pubblicitaria della televisione, ma ci siamo scontrati con volontà politica di segno opposto. Ci siamo aggrappati all’Europa, dove abbiamo o qualche risultato, ma da Bruxelles a Roma a distanza si è rivelata enorme. Non siamo mai stati – lo ripeto per l’ultima volta – con, siamo sempre stati per un sistema legislativo, dove tutti possano convivere, dove la legge non sia solo quella della giungla, ma sia anche posto per la legge della ragione, quella stessa che viene applicata in tutti i mesi civili del mondo.
Le voci di questo ideale bilancio sarebbero ancora tante e tutte importantissime; dal sistema previdenziale al problema del costo del lavoro, dalla disciplina della professione giornalistica alla disciplina antimonopolistica, o finanziamento agevolato per gli
investimenti. Ma io non posso concludere senza almeno toccare un tema che in Fieg e fuori sto da anni evocando come essenziale per il nostro futuro di editori: l’impetuoso sviluppo delle tante forme di quella che per semplicità chiamiamo editoria elettronica. Dopo tanti sorrisi benevolmente scettici, é per me motivo di particolare soddisfazione nel lasciare la presidenza della Fieg, notare come finalmente e sempre più rapidamente negli ultimi anni anche gli editori italiani si siano mossi in tanti campi: dai cd-rom (una valanga per Natale!) all’on line e soprattutto ad Internet (ogni giorno l’annuncio di un nuovo collegamento). E la cosa più importante, accanto ai grandi tutti (Mondadori, Rcs, Espresso, Sole-24 Ore, La Stampa, ecc.) tanti e sempre più numerosi sono anche i medi e i piccoli. Una cifra soltanto: il fatturato in Italia di editoria elettronica per il ’96 è previsto in 1.500 miliardi.
È ormai anche un problema organizzativo e supernazionale. Negli Stati Uniti la Naa, Newspaper association of America, ha creato un suo settore New media che ha elaborato per il congresso mondiale di Washington (maggio) un grosso rapporto sull’impatto di Internet sui quotidiani. Nessuna eccitazione fantascientifica a Reston, Virginia, quartier generale della Naa, anzi; «il giorno in cui non ci saranno più giornali — dice il capo settore New media Randy Bernet in un’intervista al mio l’Editore — è assai lontano, i limiti tecnologici sono ancora ragguardevoli, Internet è ancora molto lenta e inefficiente».
«Ma l’obiettivo dei quotidiani americani — precisano alla Naa, ed è l’obiettivo che io vorrei indicare anche agli editori italiani — è quello di essere insieme ai grandi (lo Stato, le telecomunicazioni, le società via cavo, ecc.) al tavolo della multimedialità. Quando si tratta di produrre contenuti, nessuno è preparato come noi. Una cosa è certa: nei prossimi dieci anni si deciderà il, futuro della stampa negli Stati Uniti e nel mondo».
Analoghi ragionamenti, motivazioni e obiettivi (che non starò dunque a ripetere per brevità) a Parigi, allAssociation frawaise de l’édition multimediale, Afem, il cui presidente Philippe Suttière-Lavty ha messo insieme associazioni nazionali di Francia, Germania, Svizzera, Spagna. L’obiettivo è quello di battersi «anche a Bruxelles, dove è più che mai necessario che l’Europa dei multimedia parli con una sola voce» per «costituire un filo potente di industriali, editori, autori e fornitori di servizi diventando un partner dei poteri pubblici a scala regionale ed internazionale». In Francia sono sorte recentemente altre due organizzazioni di editori l’Association de la télématique multimédia (Aftel) ed il Groupement des editeurs de services télématiques (Geste).
Quanto alla Gran Bretagna proprio o» giugno 1996, prende ufficialmente il via i progetto «Medi abase UIC» elaborato dalla Newspaper society (Associazione dei quotidiani regionali) e dalla Periodica’ publishers association (Associazione degli editori di periodici). Interessante notare c addestrare la stampa regionale al mondo Internet e del computer in genere è stato giudicato un obiettivo strategicamente prioritario dal ministero britannico per l’industria che ha finanziato metà delle 2 mila sterline necessarie a passare «dalle ricerche accademiche ai fatti». Al progetto sono collegate una serie di conferenze, seminari e corsi di formazione «per aiutai gli editori ad impadronirsi della relativa tecnologia».
Per l’Italia, come molti di voi sanno per partecipano all’iniziativa, ho costituito in questi ultimi anni a Milano l’Anee, alla quale hanno aderito una ventina di editori ed altrettanti produttori hardware e software che ha chiesto un’adesione alla Fieg in fa non ben precisata, che spetterà al nuovo presidente di definire. Ma è la Fieg come tale che dovrebbe dedicarsi più sistematicame allo studio di questo aspetto, a promuovere iniziative che consentano all’editoria italiana di non essere tagliata fuori da un cambiamento che investe tutto il mondo ci comunicazione in tutto il mondo. È in ogni caso questa l’attività culturale alla quale intendo d’ora in poi continuare a dedico a favore e con l’aiuto della Fieg se così vorranno i suoi reggitori.
Avrei ancora tanti temi da affrontare tra questi uno per noi particolarmente importante: quello dell’assetto interno de Fieg; quello cioè della ricerca degli strumenti più idonei ad assicurare la convivenza nella Fieg tra le diverse famiglie editoriali, assicurando ad ognuna di esse la possibilità di difendere le proprie specifiche esigenze e quello degli strumenti organizzativi più efficaci per assicurare autorevolezza ed incisività all’azione della Fieg. Vi abbiamo dedicato molto tempo ed energie, ma ritengo che qualunque soluzione è destinata a fallire se tutti gli associati – grandi o piccoli che siano – non si decidano a considerare la loro associazione come uno strumento importante per risolvere i problemi delle loro aziende e le dedichino altrettanto impegno ed attenzione di quanta ne riservano alle loro aziende. I problemi che dobbiamo affrontare sono, in gran parte, problemi comuni e possono essere efficacemente risolti solo se c’è una volontà comune. In tutti questi anni ho cercato – e non ci sono sempre riuscito – di conciliare la giusta, sacrosanta concorrenza tra le imprese con fa coscienza e l’orgoglio di appartenere ad um ‘unica categoria che ha problemi comuni e deve avere obiettivi comuni.
Prima di concludere consentitemi dedicare qualche parola al bilancio – come dire?- sentimentale di questa mia permanenza. Bilancio che ha degli straordinari attivi tra i quali metto innanzitutto il rapporto eccezionale che ho to con tutta lo struttura Fieg, un rapporto di vera ed intensa amicizia e di grande e reciproca stima che ci ha consentito di lavorare come una vera squadra. In poche delle altre strutture che ho frequentato ho potuto rilevare un così forte affiatamento tra coloro che con responsabilità diverse le compongono. La possibilità di lavorare con questi uomini e in questo clima è stata una delle componenti fondamentali della mia lunga permanenza alla presidenza della Fieg e commozione che provo nel lasciarla.
Vorrei ricordare ad uno ad uno i loro nomi: per tutti, citerò solo quello del direttore generale. Dei pochi meriti che posso rivendicare in questa mia lunga presidenza, il principale è certo quello di aver voluto fin dall’inizio vent’anni fa Sebastiano Sortino alla testa della Fieg e quello di lasciarlo nella stessa posizione al mio successore, garanzia certa di capacità, efficienza, dedizione e di prestigio sul piano non solo funzionale.
Il discorso va allargato dalle strutture esecutive anche al mondo editoriale. Non faccio nomi per non scontentare nessuno, ma tra i più gratificanti risultati di questa attività annovero la personale amicizia che essa mi ha consentito di stringere con molti di voi, travalicando i ruoli e gli incarichi e sconfinando dal rapporto professionale a quello personale e, non di rado, familiare.
E l’impegno di continuare a lavorare per l’editoria vecchia o nuova, e quindi inevitabilmente anche con voi, elimina quel tanto di toccante che un’occasione del genere potrebbe avere.
Lascio questa presidenza con la coscienza di aver dato tutto quello che ero capace di dare. Lascio una Federazione forte ed efficiente. Al mio successore che saprà certo far meglio di quanto abbia fatto io assicuro fin d’ora, se egli lo vorrà, tutta la mia collaborazione. Come sono sicuro che farà la struttura. Corne sono sicuro che farete tutti voi perché – passate le inevitabili frizioni legate ad una transizione che avviene dopo un periodo tanto, troppo lungo – questa nostra Fieg sia sempre più e sempre meglio la casa comune della stampa italiana e perché la stampa italiana sappia mantenere e migliorare le sue posizioni in Italia e nel mondo”.

 

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Maria Pia Rossignaud
Giornalista curiosa, la divulgazione scientifica è nel suo DNA. Le tecnologie applicate al mondo dei media, e non solo, sono la sua passione. L'innovazione sociale, di pensiero, di metodo e di business il suo campo di ricerca. II presidente Sergio Mattarella la ha insignita dell'onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Vice Presidente dell’Osservatorio TuttiMedia, associazione culturale creata nel 1996, unica in Europa perché aziende anche in concorrenza siedono allo stesso tavolo per costruire il futuro con equilibrio e senza prevaricazioni. Direttrice della prima rivista di cultura digitale Media Duemila (fondata nel 1983 da Giovanni Giovannini storico presidente FIEG) anticipa i cambiamenti per aiutare ad evitare i fallimenti, sempre in agguato laddove regna l'ignoranza. Insignita dal presidente Mattarella dell'onorificenza di "Cavaliere al Merito della repubblica Italiana. Fa parte del gruppo di esperti CNU Agcom. E' fra i 25 esperti di digitale scelti dalla Rappresentanza Italiana della Commissione Europea. La sua ultima pubblicazione: Oltre Orwell il gemello digitale anima la discussione culturale sul doppio digitale che dalla macchina passa all'uomo. Già responsabile corsi di formazione del Digital Lab @fieg, partecipa al GTWN (Global Telecom Women's Network) con articoli sulla rivista Mobile Century e sui libri dell'associazione. Per Ars Electronica (uno dei premi più prestigiosi nel campo dell'arte digitale) ha scritto nel catalogo "POSTCITY". Già docente universitaria alla Sapienza e alla LUISS.