L’America che ha appena avuto un presidente nero e che sta – forse – per averne uno donna non è ancora pronta ad averne un magnate dell’editoria. Scottata da Quarto Potere e da Orson Welles, più che da esperienze analoghe di Paesi amici e alleati – leggi Italia -, attenta al conflitto d’interessi e al bilanciamento dei poteri, l’America archivia il sogno presidenziale di Michael Bloomberg, che sceglie di correre contro Donald Trump – altro magnate, ma dell’immobiliare -, tenendosi fuori, piuttosto che buttandosi dentro.
L’uomo che ha creato un impero mediatico, con l’Agenzia Bloomberg e i suoi derivati, l’ex sindaco di New York, l’indipendente centrista che è stato sia democratico che repubblicano, ha cioè rinunciato a correre per la presidenza degli Stati Uniti proprio per evitare –scrive sul proprio sito – di favorire l’eventuale vittoria del populista Trump o, in alternativa non migliore, di Ted Cruz – Tea Party ed evangelici –, le cui posizioni, specie sull’immigrazione, giudica “divisive” ed “estremiste”.
La decisione di Bloomberg, annunciata dopo il Super-Martedì del 1° marzo, non sorprende, visto l’andamento delle primarie dei due maggiori partiti. E, dopo l’annuncio, Hillary Clinton, battistrada per la nomination democratica e maggiore beneficiaria della desistenza dell’ex sindaco, ha espresso “grande rispetto”.
Bloomberg, 74 anni, valutava da mesi e in modo approfondito, con sondaggi e ‘focus group’, l’eventualità di una candidatura, sdegnato e preoccupato dal profilo dei candidati repubblicani populisti e ultra-conservatori e spinto – parole sue – dal “dovere patriottico” di evitarne l’elezione. Le anticipazioni sulla possibilità che scendesse in campo s’erano intensificate all’inizio di febbraio, dopo la partenza non brillante della Clinton nelle primarie.