L’ispirazione per questo numero speciale su Jihad (oltre l’effetto preoccupante della minaccia onnipresente di Daesh) è nata dalla riscoperta, casuale, di un articolo di Benjamin Barber pubblicato in marzo 1992 nella nota rivista americana, The Atlantic. Il testo mi si è rivelato quale ricapitolazione profetica (ora di 24 anni fa) dei punti di avvio, ed anticipatore delle tappe che hanno portato alla crisi mondiale in atto. Jihad versus McWorld è il simbolo del conflitto di base tra fondamentalismo (non solo islamico, ma generale) versus il consumerismo galoppante da McDonald a Macintosh. La mia idea di partire da ieri per arrivare a capire l’oggi mi ha portato a chiedere allo stesso Barber e ad altri grandi esperti italiani e francesi di fare, con me, il punto sulla situazione attuale privilegiando il ruolo dei media nella propaganda dell’IS.
La propaganda dell’IS è la più grande opera transmediale in corso, abbiamo la creazione di un mondo e cioè il Califfato, la sua narrazione, i suoi miti, attraverso una molteplicità di media diversi e in tempo quasi reale. In più la storia stimola la partecipazione estrema ed esperta degli utenti attraverso una ramificazione indefinita di reti e collaborazioni.
Riferirci al mito del Califfato, per esempio, permette di creare un branding tipico delle strategie nord-americane di marketing essenziali per il successo della propaganda.
Ho scelto di aprire il numero con Monica Maggioni per introdurre il “mondo” di Daesh a partire dai primi vagiti della storia o storie della cosiddetta Jihad. Il filo lineare della narrazione segue il timeline creato da mio fratello Ferry de Kerckhove. Subito dopo la panoramica della Maggioni prosegue Matteo Colombo per illustrare le strategie di persuasione dello stato islamico. Poi la sottile analisi di Coralie Muller è dedicata ai messaggi sempre più raffinati dell’IS e ai loro pubblici globali e diversi. Si conclude il tema della propaganda con una ripresa della fine de Il Marketing dell’Apocalisse di Bruno Ballardini, malgrado la severità moralista del suo giudizio perché induce a pensare. La violenza islamista, secondo lui, è lo specchio negativo della nostra società venduta al consumerismo senza freno che crea i suoi propri mostri. Però, la domanda principe è: perché siamo diventati ostaggi della propaganda del terrore? La spiegazione, pian piano si svela attraverso gli scritti degli autori scelti.
Per riprendere la metafora del transmedia, la storia immaginata da Barber è autenticamente una finzione transmediale perché è scritta prima degli eventi, poi verificatisi e oggi d’attualità. Inoltre Barber parte dal passato ma ci indica quali delle sue profezie si sono realizzate.
Per la storia Gilles Kepel, considerato l’esperto mondiale dell’islamismo, distingue le tre grandi fasi del Jihadismo a partire dal teorico più influente, Abou Moussab al-Suri, autore di The Global Islamic Resistance Call (Da’wat al-muqawamah al-islamiyyah al-‘alamiyyah), fonte principale della strategia terrorista. Kepel riassume in poche parole la strategia di conquista militare immaginata dall’IS: “Daesh si appoggia sull’aiuto di abbrutiti locali ai quali raccomandano di uccidere gente intorno. Ciò basta per provocare il terrore. È un tipo di Jihad di prossimità. La visione è banalmente semplice: ne deve risultare un islamofobia di massa. I mussulmani raggiungeranno i radicali e inizierà la guerra civile. Poi il califfato trionferà. I terroristi vogliono polarizzare la popolazione”. (Gilles Kepel in Fottorino, 62)
Olivier Roy, autore di l’échec de l’islam politique sempre pubblicato nel 1992 riassume nel concetto dell’Oumma il dramma dello storytelling dell’ISIS, le sue origini i suoi attori. Indica il malessere delle nuove generazioni di origine musulmana quale ponte verso il fondamentalismo islamista.
Infatti sono tre le parole da conoscere per cercare di capire le criticità della situazione politica, sociale e ideologica dell’Islam: Oumma, Fitna e Jihad. Oumma significa l’unità di tutto il mondo musulmano; Fitna è la lotta interna per rispondere alla minaccia di rottura dentro l’Oumma; Jihad è la lotta esterna contra minacce fuori l’Oumma.
Riprendendo un argomento che fa eco a Barber, Roy sottolinea la radice del rapporto fra fondamentalismo e radicalizzazione. Suggerisce che i giovani musulmani della terza generazione sono alienati dall’occidente più ancora che dalla loro cultura ancestrale. Lui spiega che loro non si riconoscono più nell’assenza di valori del MacWorld. Prendono potere su se stessi con la violenza. Come nel caso del fascismo, il radicalismo emerge a causa della perdita d’identità e dall’illusione che l’azione estremista può recuperarla.
Tutti i media parlano di Jihad perché attirare l’attenzione è semplice con reportage sulle atrocità; ciò serve ancor più alla propaganda di Daesh. Fondamentalmente tutto parte dallo scisma fra Sciiti e Sunniti, (e dalle loro diversificazioni in Alawiti e Wahabiti), di nuovo guerra di religione tra due sorelle dopo l’orrore della guerra di 100 anni fra Cattolici e Protestanti. La parola giusta per questo è Fitna, ben spiegata da Kepel in Fitna, Guerre au coeur de l’Islam: “La parola Fitna è tradotta ogni tanto con ‘sedizione’, quando la comunità musulmana è frammentata perché ha perso il senso delle proporzioni e della realtà, della maslaha, e si lascia guidare dai demoni dell’estremismo andando verso la sua rovina. La Jihad ritorna come un boomerang dall’interno e indebolisce la comunità. La Fitna è l’incubo degli oulema (teologi) dai primi tempi dell’Islam”.
Perché c’entra? Perché mettere Fitna in avanti riporta la percezione del problema al suo vero centro, la crisi interna dell’Islam illustrata da un divario non solo ideologico ma pure politico dell’estremismo contro i moderati, la nuova “Silent Majority” dell’Islam. Come afferma lo storico libanese Georges Corm: “Dobbiamo ricordare che i fenomeni terroristici che adottano slogan cosiddetti islamici colpiscono prima e molto più intensamente e continuamente per decenni i paesi musulmani arabi e altri. Parlare di “Jihad” nel caso di operazioni terroristiche è un’aberrazione perché quando i musulmani uccidono indiscriminatamente gli altri musulmani non possiamo chiamare Jihad questo tipo di barbarie”.
Se i media si accontentano di promuovere la “Jihad” nel discorso sociale, i musulmani moderati, benché enormemente più numerosi, non prendono la responsabilità di risolvere il conflitto. È precisamente sulla responsabilità dei media che Giampiero Gramaglia porta l’attenzione partendo della risposta superficiale del giornalismo italiano sulla situazione in corso. Forse l’approccio giusto è quello di Alessandro Pica, che, sottolineando l’urgenza del pericolo insiste sull’obbligo dei media di comportarsi attentamente per evitare di fare il gioco palese dell’IS.
Da parte sua Corm punta sull’irresponsabilità dei media e anche della ricerca accademica sull’Islam che promuovono la tesi – fittizia secondo lui – de Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale di Samuel Huntington:
“Credo urgente lottare contro l’ideologia dello scontro di civiltà che si è infiltrata in ogni discorso e che è diventato una sorta di profezia che si autorealizza dal momento in cui abbiamo schierato l’esercito e non i mezzi tipici della polizia per combattere contro il terrorismo ampiamente sostenuto, a seconda delle cause, dai membri della NATO. Questa ideologia è altamente fantasiosa e dannosa, e la dobbiamo incessantemente dimostrare. Se le organizzazioni terroristiche prosperano oggi, è dovuto a interventi militari esterni e alle manipolazioni di questi movimenti”.

Se, come credo il problema è più profondo e tocca tutta l’umanità del globo, la soluzione prima sarà tecnica, mettere letteralmente tutti e tutto sotto sorveglianza continua per evitare le azioni terroriste, e dopo, sociali, obbligando tutti a rispettare regole comuni a tutto il pianeta.

 

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Derrick de Kerckhove
Direttore scientifico di Media Duemila e Osservatorio TuttiMedia. Visiting professor al Politecnico di Milano. Ha diretto dal 1983 al 2008 il McLuhan Program in Culture & Technology dell'Università di Toronto. È autore di "La pelle della cultura e dell'intelligenza connessa" ("The Skin of Culture and Connected Intelligence"). Già docente presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II dove è stato titolare degli insegnamenti di "Sociologia della cultura digitale" e di "Marketing e nuovi media".