ISIS e comunicazione.

Il rapporto tra mezzi di comunicazione e guerra, così come intesa in tutte le possibili accezioni, è stato caratterizzato fin dalla nascita dei primi strumenti d’informazione, da un intenso legame di reciproca dipendenza. Come se le innovazioni nel settore della comunicazione fossero di volta in volta al servizio degli attori coinvolti e, al tempo stesso, i mass media trovassero nei conflitti un terreno di sperimentazione e avanzamento delle proprie potenzialità. Con la guerra del Vietnam prima, e con quella del Golfo poi, gli eventi bellici iniziano ad essere raccontati in grande stile dalla televisione. L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, visto in diretta da miliardi di spettatori, rappresenta forse l’apice di questo fenomeno. Ma è grazie alle nuove potenzialità offerte dalla Rete che, ad esempio, i gruppi terroristici, da Al Qaeda all’ISIS, sono riusciti a compiere importanti passi in avanti nella guerra contro l’Occidente, tanto da poter parlare di “Cyber Jihad”. E se i seguaci di Osama Bin Laden si sono distinti per una campagna di comunicazione online che oggi, ma non allora, potremmo definire quasi rudimentale, gli uomini del Califfato fanno un uso estremamente competente ed efficace dei nuovi media e soprattutto dei social media – una capacità di utilizzo che implica l’accettazione dei presupposti ideologici e filosofici delle più recenti piattaforme di comunicazione, dei suoi meccanismi di produzione e di distribuzione.

L’ISIS non solo usa social media come Twitter e Facebook, ma anche app di messaggistica peer-to-peer, quali Telegram e Surespot, e sistemi di condivisione dei contenuti come JustPaste; ha decentralizzato le operazioni di comunicazione con unità di produzione non solo in Iraq e in Siria, ma anche nel Caucaso e nell’Africa occidentale; utilizza con abilità le tecniche di user engagement di BuzzFeed. In sintesi, come osservato dal giornalista americano Brendan Koerner, l’ISIS ha rinunciato alla centralizzazione e al controllo dei messaggi, prerogativa dei sistemi autoritari, optando – in modo forse opportunistico ma senz’altro efficace – per l’apertura della rete in modo da massimizzare la distribuzione e l’impatto della propria propaganda. I contenuti veicolati dall’ISIS, o in suo nome, hanno come protagonisti i combattenti, non i leader, la base e non il vertice, e in questo senso sono assolutamente in sintonia con una generazione che è abituata a creare e condividere i propri contenuti. Potremmo definirla una scelta di comunicazione in termini federalisti e partecipativi.

Questo utilizzo di sistemi di comunicazione che tendiamo a considerare prerogativa di sistemi democratici, ha anche l’effetto di spaventarci: come in una sineddoche, proiettiamo la parte sul tutto, trasformiamo il mezzo nel messaggio. L’efficacia comunicativa dell’ISIS ci fa pensare che il Califfato sia in toto un sistema efficace e quindi una minaccia concreta e imminente per i valori e i sistemi su cui si poggia il nostro quotidiano.

Diversi analisti ritengono che l’obiettivo dell’ISIS sia proprio quello di provocare l'”annientamento culturale” dell’Occidente: creare tante e tali ondate di terrore da portarci a mettere in discussione, e quindi a limitare e infine sospendere, i principi dello stato di diritto, dell’uguaglianza di fronte alla legge, del garantismo, delle libertà individuali e dei diritti civili. Una sorta di implosione in cui, di fronte alla minaccia incontrollata ed incontrollabile dell’ISIS, l’Occidente rinuncia a sé stesso e quindi soccombe al fine di un istinto di autoconservazione che, tuttavia, attiverebbe il virus dell’autodistruzione.

Il rischio è concreto e lo riconosciamo ogni giorno nella difficoltà dell’Unione Europea nel trovare strumenti comuni per far fronte alla crisi dei rifugiati, nei movimenti centrifughi, nell’affermarsi politico dei populismi. La minaccia appare estremamente concreta e al contempo del tutto nuova, una minaccia di fronte alla quale sentiamo di non avere strumenti. È quindi necessario ancorarsi saldamente ai principi democratici, e tenere a mente i poteri e le prerogative di ogni soggetto pubblico. In quest’ottica, il giornalismo ha la responsabilità non facile di contestualizzare correttamente gli eventi, mostrandone non solo il lato più spettacolare e drammatico, ma anche quello più complesso. Valorizzando le occasioni di dialogo e non solo di scontro, mostrando le esperienze positive e i casi di integrazione virtuosa. E soprattutto il giornalismo deve imparare ad usare i nuovi media, ragionare in ottica multipiattaforma, acquisire gli strumenti e la filosofia del crowdsourcing e del narrowcasting per mettere sotto la giusta luce ciò che accade in Medio Oriente e in Europa, ma anche, e soprattutto, per riuscire a raggiungere quel pubblico che non legge i giornali nè li ha mai letti, perché comunica con logiche, presupposti e strumenti nuovi.

Solo se il giornalismo riuscirà a dare questo colpo di reni – mentale e valoriale prima che tecnologico – sarà allora all’altezza del ruolo che ricopre nel sistema di checks and balances democratico e darà un vero contributo alla lotta al terrorismo, ricongiungendosi alla propria origine deontologica di intermediario (medium) tra la realtà, i fatti, e l’illusione, tra informazione e disinformazione.

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Alessandro Pica
CEO AGI - Agenzia Giornalistica Italia