Tutti i saggi degli esperti che abbiamo raccolto nel numero 312 di Media Duemila per evidenziare le strategie di comunicazione del movimento Jihadista ci danno ragione. La diffusione dell’informazione resta l’arma più potente.
Nell’ “Enquête sur l’Etat Islamique” libro pubblicato nel 2015, Coralie Muller afferma: “Senza dubbio una delle armi più potenti che ha lo Stato islamico (IS) è la sua propaganda mediatica. Impedirla dovrebbe essere il fulcro della strategia avversaria”.
La giovane giornalista parigina invita all’analisi della propaganda IS che si caratterizzata soprattutto per il fatto di essere duplice: da un lato quella “ufficiale”, diretta, verticale; dall’altro quella spontanea, diffusa e orizzontale.
Nel libro si legge: “La prima è trasmessa direttamente dall’IS attraverso i cosiddetti media tradizionali. La seconda è co-prodotta e divulgata dai suoi sostenitori, internauti attraverso i social media. È questa dualità, estremamente complementare, che spiega il potere della propaganda dell’IS perché fondata su diversi livelli di legittimità (quello delle autorità politiche e quello della base sociale) e su vari mezzi di comunicazione (i media tradizionali, che danno una immagine di “serietà” e i social media, che le conferiscono un senso di vicinanza) per veicolare i suoi messaggi e aumentare la sua capacità di persuasione.
Il suo primo obiettivo sono i simpatizzanti o i potenziali sostenitori che l’ISIS cerca di sedurre giocando sulle diverse emozioni (che analizzeremo più avanti) per reclutarli o convincerli a emigrare nei suoi territori. Si tratta di una questione cruciale per l’IS, che ha il costante bisogno di combattenti visto il gran numero di perdite umane nei suoi ranghi.
Il secondo obiettivo sono invece i nemici dell’IS, che sono – come dice il loro motto: “il mondo è diviso in due campi” – tutti quelli che non sono dalla loro parte. Nella “categoria” dei nemici possiamo perciò distinguere coloro che affrontano lo Stato islamico via terra ( soldati dell’esercito iracheno, le milizie sciite, i peshmerga, i ribelli siriani) e coloro che conducono combattimenti aerei (la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti).
Nella sua propaganda, l’IS cerca di terrorizzare i primi e provocare i secondi. L’organizzazione, poi, adatta il suo messaggio al singolo supporto mediatico, di cui maneggiano alla perfezione i codici di comunicazione”.
Alle sue reclute si rivolge con i documentari (alcuni della durata di quasi un’ora), a metà strada tra i film di Hollywood e i videogiochi, ad alta definizione, ricchi di effetti speciali, che glorificano la lotta e magnificano la vita quotidiana sotto il califfato.
“Questo insieme d’immagini esaltanti permette all’IS di mascherare il suo progetto terrorista – spiega Muller – a guerra diventa un grande “show” glamour e epico. Le riviste – tra cui il periodico inglese Dabiq o il francese Dar al-Islam (il dominio dell’Islam) – pubblicano articoli, editoriali e interviste, corredati da numerose foto e fotomontaggi che mostrano, spiegano e giustificano il progetto dell’IS, la sua visione del mondo, le sue azioni. Le citazioni dal Corano e gli hadith (aneddoti sulla vita del profeta), inseriti quasi in ogni paragrafo, hanno lo scopo di “certificare” le idee. Un’impaginazione chiara, fluida e accattivante, che dona agli articoli un’aura di competenza con lo scopo di dare un’immagine di professionalità e rigore giornalistico”.
In questo quadro di estrema professionalità, Coralie Muller identifica sei messaggi chiave:
il primo è l’esortazione ai musulmani di tutto il mondo a compiere il loro dovere religioso: emigrare verso il califfato. “O musulmani, accorrette al vostro Stato. [. . . ] La Hijra nella terra dell’Islam è obbligatoria”. L’obbligo del musulmano èmigrare verso lo Stato islamico per non passare automaticamente dalla “parte sbagliata”, “impura”, che l’organizzazione lotta con fermezza. Il mondo, infatti “è diviso in due: da un lato il campo dell’Islam e della fede, dall’altro l’infedeltà e l’ipocrisia”. Un musulmano che nella parte sbagliata invece di unirsi “all’unico Stato oggi ad essere governato dalla legge della Sharia” va verso la corruzione e si autocondanna a l’infedeltà.
“Vivere tra i kafir (i miscredenti) contamina il cuore e, con il tempo in maniera indelebile. Essi (i miscredenti) distruggono la fitra (la naturale attitudine che ci porta verso Dio) nell’individuo fino a un punto di non ritorno, quando i dubbi e i desideri che lo affliggono intrappolano del tutto il suo cuore. […] Ci si trasforma in ebreo o un cristiano senza nemmeno rendersene conto”. Ogni musulmano deve emigrare per partecipare al jihad, lanciata dall’organizzazione: “Non c’è vita senza Jihad né Jihad senza Hijra […]. La vita in Jihad non è possibile fino a che non hai fatto i bagagli e ti sei insediato nel Califfato. […]. Chi muore senza aver preso parte alla battaglia e senza avere la volontà di parteciparvi muore da ipocrita”.
Questo primo messaggio sfrutta, chiaramente la fede dei musulmani per costringerli a unirsi alla causa. Il tono è quello di pressione, minaccia e colpa, con l’uso del possessivo “vostro” Stato.
Nel secondo messaggio, rivolto ugualmente ai musulmani di tutto il mondo, il califfato gioca su un registro completamente diverso. Il fatto di unirsi non è più presentato come un obbligo ma come una promessa. Una promessa di riabilitazione: “O musulmani, una buona notizia per voi. Alzate la testa perché oggi, per grazia di Allah, si dispone di uno Stato e di un Califfato che vi renderà la vostra dignità, il vostro potere, i diritti e il vostro comando. È giunto il momento per quelle generazioni che sono state annegate negli oceani della vergogna, che sono state nutrite con latte proveniente da umiliazioni orchestrate dai più infami […] di sollevarsi […]. Il tempo di gemiti e lamenti è finito, perché l’epoca dell’onore è all’orizzonte. Il sole del Jihad si è levato”.
Una promessa di grandezza e di protezione: “Presto, con il permesso di Allah, verrà il giorno in cui il musulmano marcerà da padrone, onorato, riverito, a testa alta. Chi oserà offenderlo sarà punito, la mano che si poserà su di lui per ferirlo sarà tagliata”.
A queste si unisce la promessa di liberazione: “I confini nazionali sono stati rotti (il Califfato si trovava a cavallo tra Iraq e Siria, nda), questi confini che dividevano i musulmani saranno la loro forza”.
E arriviamo alla promessa di vendetta: “I musulmani oggi devono fare una dichiarazione forte e tonante e indossare gli stivali pesanti. Dichiarazione che costringerà il mondo ad ascoltare e comprendere il significato del terrorismo, degli stivali che calpesteranno il nazionalismo e la democrazia”.
Il terzo messaggio si rivela più pragmatico e si concentra sulla funzionalità e la normalità dello Stato islamico: servizi forniti alle persone, sicurezza, la vita va avanti seguendo il suo corso tranquillo. La rivista Dabiq, nei suoi vari numeri, elenca, utilizzando anche fotografie, le azioni intraprese dall’IS come Stato: “[…] il ripristino di energia elettrica nella città di Raqqa, l’apertura del centro di cura contro il cancro infantile nella provincia di Ninive, la pulizia delle strade, l’apertura di una struttura di assistenza per gli anziani”. Evidenziano “i rapporti tra lo Stato islamico e i suoi cittadini, dove i tassi di criminalità sono ridotti, l’ approvvigionamento alimentare, in particolare di pane è assicurato. Elementi che puntano a diffondere tranquillità. In sostanza l’invito a candidarsi alla hijra significa: “non vi preoccupate per i soldi o l’alloggio, per voi e la vostra famiglia. [Qui] ci sono sufficienti abitazioni e risorse per soddisfare le vostre esigenze”.
“Lo Stato islamico ha dedicato milioni di dollari per servizi importanti per i musulmani”.
Il quarto messaggio è sul senso di comunità che unisce i musulmani. Indipendentemente dal colore della pelle, della nazionalità o dell’origine etnica perché condividono una fede: “O musulmani […] Voi avete uno Stato e un Califfato [..]. C’è uno stato di arabi e non arabi, neri e bianchi, orientali e occidentali (si mischiano). C’è un Califfato che unisce caucasici, indiani, cinesi, siriani, iracheni, yemeniti, egiziani, magrebini, americani, sudafricani, francesi, tedeschi e australiani”.
L’Islam li lega come figli: “Per grazia di Allah sono diventati fratelli. In nome di Allah si amano”. Al punto di essere in grado di donare se stessi: “Si difendono e si sacrificano l’un per l’altro”. Essi formano un tutto indivisibile: “Il loro sangue è misto e diventa un tutt’uno”.
Il quinto messaggio è relativo all’ostentare la violenza inflessibile dell’IS. A differenza di molte altre organizzazioni politiche colpevoli di crimini contro l’umanità (i nazisti, gli khmer rossi, ecc), i jihadisti non fanno alcun tentativo di nascondere la loro barbarie. Essi, al contrario, l’esibiscono.
Questa propaganda del terrore si rivolge a due tipi di pubblico. Il primo è locale: sono i nemici che affrontano il califfato via terra (soldati iracheni, siriani, curdi) e le popolazioni su cui l’organizzazione ha stabilito il suo controllo; in questo caso, seminando il terrore cerca di minare il morale dei primi e di dissuadere ogni accenno di ribellione o di spionaggio dei secondi.
Nel giugno 2014, l’IS ha pubblicato su Internet una serie di foto che mostrano decine di soldati iracheni, catturati nella provincia di Salah ad-Din, stipati in camion, trascinati insieme su un vasto terreno, allineati faccia a terra, con le mani sulla testa, infine giustiziati a colpi di mitra. Ogni volta si nota un’innegabile senso di messa in scena. Una dimensione spettacolare che ostenta la violenza dell’organizzazione, lungi dall’essere cieca e sfrenata ma finemente calcolata, prodotta e “confezionata” per scopi propagandisti.
Il secondo pubblico cui è destinata la propaganda del terrore dell’IS è internazionale: da una parte ci sono le potenziali reclute, che devono essere fomentate, dall’altra c’è la comunità internazionale, che bisogna riuscire a intrappolare.
La spietatezza dell’organizzazione è “venduta” come fiore all’occhiello ed è la dimostrazione della sua supremazia. Per far sì che sia più mobilitante che ripugnante, la violenza non è veicolata in maniera crudele ma si arricchisce di un’estetica grandiosa e trascendente come in una narrazione epica.
Al film documentario “Flames of War: Fighting are just begun”, prodotto sempre dall’agenzia Al-Hayat e “uscito” nel mese di settembre 2014, è assegnato questo doppio proposito illustrativo. Dovrebbe seguire l’ascesa dell’ISIS, questo però succede nei primi secondi, per poi scioccare lo spettatore nel corso degli altri 55 minuti. La violenza non è più torbida ma è “allettante” come in un kolossal americano, o in un videogioco. La voce narrante, dal tono “ultrahollywoodiano”, denuncia le “menzogne” degli Stati Uniti (riguardo l’Iraq), incita al sacrificio i mujahidin (i “martiri” sono filmati sul campo di battaglia, a distanza ravvicinata, hanno un sorriso sereno) e insiste sul fatto che “la lotta è appena iniziata”.
Quando però è rivolta alla comunità internazionale, la violenza esibita dall’IS ridiventa sordida. Tra agosto e ottobre 2014, come rappresaglia per gli attacchi della coalizione appena formatasi, l’organizzazione diffonde quattro video che filmano ognuno la decapitazione davanti alla telecamera di un ostaggio occidentale: il reporter americano James Foley, il giornalista americano-israeliano Steven Sotloff, gli operatori umanitari britannici David Haines e Alan Henning, tutti catturati in Siria. L’uniforme arancione con cui sono vestite le vittime, che ricorda quelle dei detenuti del carcere statunitense di Guantanamo, e l’accento inglese del boia (soprannominato “jihadi John” dalla stampa internazionale), ancora una volta dimostrano un senso profondo della messa in scena.
Il sesto è un messaggio di urgenza escatologica. Combattere a fianco dell’IS significa partecipare all’ultima battaglia, annunciata come imminente dalla propaganda, e consegnarsi al giudizio finale. In questa prospettiva, la conquista di Dabiq (villaggio della Siria) è un elemento centrale della propaganda stessa perché il villaggio siriano è presentato nella profezia come la scena della battaglia finale tra le forze del bene, i musulmani, e le forze del male, i “roumis”.
“I ‘roumis’ – letteralmente ‘i romani’ – erano al tempo di Maometto i bizantini. Oggi, nella propaganda jihadista, questo termine indica i “crociati” e gli infedeli”, afferma Jean-Pierre Filiu. L’hadith (la lezione del profeta) che cita questa profezia è continuamente invocata dall’IS, in particolare nella sua rivista Dabiq, più precisamente: “L’ultima ora verrà non prima che i Bizantini attaccheranno Dabiq. Un esercito musulmano composto dai migliori uomini al mondo in quel momento sarà spedito da Medina a contrastarli. Una volta che i due eserciti saranno faccia a faccia i bizantini grideranno: ‘Lasciateci combattere i nostri simili convertiti all’Islam’. I musulmani risponderanno: ‘Per Allah, non abbandoneremo mai i nostri fratelli”. Poi la battaglia inizierà. Un terzo vincerà – prevede l’hadith – e conquisterà Costantinopoli”.
Il messianismo indossato e ostentato dall’IS cerca indirettamente d’infiammare l’odio confessionale fra sunniti e sciiti (la fine del tempo è uno dei temi che differenzia di più i due rami dell’Islam). Inoltre, questa promessa di salvezza è una leva di reclutamento potente. In questo modo l’IS cerca d’incoraggiare la comunità internazionale, e in particolare la superpotenza statunitense, ad impegnarsi militarmente via terra contro di lui. L’arrivo delle truppe “crociere” “marcianti” in Iraq e in Siria venute ad affrontare i mujahidin del califfato rafforzerebbe la propaganda dell’Isis, facendo sembrare come se si avvicinasse l’avveramento della profezia. E non importa, in questo scenario, che i nemici dell’IS possano superarlo militarmente, perché la profezia prevede pesanti perdite nel campo dei “buoni”.
Da ultimo, “il messianismo è molto efficace nel quadro di un progetto totalitario, perché è tutto o niente, e soprattutto perché non ci saranno concessioni al nemico: ci sarà il massacro, lo sterminio. Perché si è nella ragione. E perché, in ogni caso, è scritto nella profezia che il nemico sarà sterminato”, conclude Filiu.
Accanto a questa propaganda “di Stato”, i social network hanno la loro rilevanza grazie ai membri o ai simpatizzanti “2.0”. che sono sparsi in tutto il mondo, ma hanno in comune di essere dei “nativi digitali” (generazione nata con il digitale e Internet). Tra questi, si possono distinguere tre “gruppi”.
Il primo è composto da combattenti stranieri e “emigra(n)ti” stabilitisi nel califfato. A colpi di “selfie” questi mostrano il loro nuovo quotidiano, che evoca quello di un “divertente” villaggio vacanze. Da queste istantanee scattate sul social “Le Vif” se ne ricava un’immagine “cool”. Si può quasi vedere l’emergere di una nuova tendenza “hype”, lo “stile jihadista”. Questi selfie, proprio perché spontanei – almeno in apparenza, perché non è possibile verificare se in realtà non siano stati “ordinati” dall’IS – vogliono avvalorare la propaganda ufficiale dell’organizzazione (“vieni, sarai felice qui”).
Il secondo gruppo è quello dei “reclutatori” su Internet per conto dell’IS. In Francia, uno dei più noti, fino alla sua morte in Siria ad agosto 2015, è stato il franco-senegalese Omar Diaby, alias Omar Omsen. Questo ex delinquente originario di Nizza ha lanciato un canale su YouTube, 19 HH1, su cui pubblicava “documentari” islamisti, antisemiti, cospirazionisti e millenaristi, in cui esortava i musulmani francesi a “fare la loro hijra” verso lo Stato islamico. Questi video completano la propaganda ufficiale dell’IS, la “traducono” per il pubblico francese.
Infine, il terzo gruppo riunisce tutti i simpatizzanti su Internet. Essi non hanno attraversato il proprio confine per andare in Iraq e Siria, ma seguono in massa la propaganda dell’Isis. Il loro terreno preferito? I social network Facebook e Twitter, dove condividono e ritweettano i video dell’IS. Il “contributo” più grande dato da questi simpatizzanti 2.0 è basato sul fatto che essi si appropriano del messaggio dell’organizzazione e lo rendono popolare.
Realizzando e diffondendo su Internet i loro meme questi simpatizzanti 2.0 contribuiscono a inserire l’organizzazione nella “Cultura Lol”, la cultura dello scherno sul web (Lol significa proprio “laughing out loud”, ridere ad alta voce, acronimo usato nelle conversazioni via sms ma che abbonda anche nelle reti sociali), estremamente popolare tra i “geek” e tra i più giovani in generale.
La propaganda diffusa da questi simpatizzanti è, in fin de conti, molto più penetrante di quella ufficiale dell’IS. Essa s’insinua, infatti, nelle menti in maniera più subdola. E questo perché è sia indiretta (proviene da internauti “lambda” – anonimi – e non da l’IS o dai suoi combattenti), scherzosa (l’umorismo aiuta a far abbassare le difese) e partecipata (la possibilità di lasciare commenti, di mettere un “mi piace”, di ritweettare, di votare, d’inviare il proprio meme, ecc. può influenzare l’inclinazione ideologica).
All’interno di questo “esercito” di utenti digitali volontari, sembrano esserci comunque alcuni “capitani”, utenti impegnati molto più direttamente, forse anche “addestratori” dell’IS (senza che se ne abbia tuttavia la certezza), rodati per strategie aggressive di marketing virale, che può consistere nel pubblicare nello stesso momento il maggior numero possibile di tweet.
Estratto del testo “Enquête sur l’Etat Islamique” di Coralie Muller