Molti avranno visto, e quindi ricorderanno ‘Il discorso del Re’, bel film di Tom Hooper, del 2010, che racconta come Giorgio VI, re d’Inghilterra, sullo schermo Colin Firth, fu capace – lui, balbuziente – di pronunciare alla radio il discorso dal forte impatto emotivo con cui, nel settembre 1939, informò la Nazione della dichiarazione di guerra trasmessa alla Germania.
E molti avranno presenti le immagini un po’ sgranate e mosse del discorso di Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia: il 10 giugno 1940, il Duce annunciava alla folla adunata in piazza, sciaguratamente entusiasta, “l’ora delle decisioni irrevocabili”, la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia.
Ci vengono in mente in queste ore quelle scene, quei documenti, perché mai come adesso lo scontro – o almeno l’incidente – militare tra le due Potenze della nuova Guerra Fredda, Usa e Russia, è stato così vicino in Siria ed è parso così imminente. La memoria ci porta indietro all’ottobre 1962, alla crisi dei missili a Cuba tra gli Stati Uniti di John F. Kennedy e l’Unione sovietica di Nikita Krusciov.
La tensione dei momenti è simile. La percezione del rischio pure. Ma la comunicazione è totalmente diversa. Il preludio d’un sussulto che può mandare fuori controllo un conflitto che si trascina dal 2011 sono frammenti di tweet che il premier turco Yildirim paragona a battute “da bulli di strada”: dallo “state pronti” ai russi al “ci sarà un prezzo da pagare” ad Assad; con tutto un contorno di esclamazioni da fumetto, sick, bad, crazy. Parole ed emoticon di Donald Trump. Una guerra?, o un video-gioco?
La convinzione è che non c’è un modo ‘buono’ per annunciare un conflitto armato, anche se e quando è ‘giusto’. La misura del potenziale distruttivo dello scontro non sarà data dalle parole, ma dai missili e dai raid aerei, se partiranno e se ci saranno.
Non fosse tragica, sarebbe paradossale la sensazione che il Mondo sia, adesso, sull’orlo d’una guerra in Siria quando la guerra in Siria va avanti da oltre sette anni e ha già fatto più di mezzo milione di vittime – almeno la metà civili, bambini, donne, vecchi -.
Ma c’è la convinzione di essere sull’orlo del baratro di un ‘salto di qualità’ del conflitto: da regionale a mondiale, con un confronto senza precedenti Usa – Russia. Finora, Mosca e Washington, pur battendosi in Siria su fronti diversi, sono riusciti a mostrarsi alleati contro il terrorismo integralista – e contro l’Isis, il sedicente Stato islamico -, anche se poi i russi appoggiano il presidente al-Assad e il suo regime e gli americani stanno piuttosto con l’evanescente e difficilmente situabile sul terreno opposizione ‘moderata’.
La rotta dell’Isis ha fatto cadere il comodo paravento. E le contraddizioni siriane, già note, sono esplose: gli Usa quasi assenti e sostanzialmente ininfluenti – pochi giorni fa, Trump progettava im completo ritiro dallo scacchiere siriano -; Russia, Turchia e Iran impegnati a spartirsi il Paese in zone d’influenza: Mosca e Teheran a fianco di al-Assad, in funzione d’influenza o d’egemonia regionale; Ankara soprattutto contro i curdi (e contro al-Assad); Arabia saudita e Israele che soffiano sul fuoco, soprattutto per contenere l’Iran.
Gli Usa batterono un colpo sul tavolo un anno fa, dopo un attacco chimico simile a quello di Duma: Trump ordinò senza preavviso una gragnola di missili su una base siriana e tutto si fermo lì. Questa volta, il pugno sul tavolo è stato annunciato e pubblicizzato: troppo, perché Mosca possa fare finta di niente. Per questo, i rischi sono molto superiori.

Guerra Siria

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.