Come ho avuto modo di affermare, anche recentemente: «Nella civiltà ipertecnologica e delle macchine intelligenti (?), fondata sul controllo totale, sull’illusione della prevedibilità, sulla programmazione/(iper)simulazione dei processi e delle azioni, e segnata da una progressiva crescita del tecnologicamente controllato – che marginalizza lo spazio della responsabilità – le sfide del cambiamento sono riconducibili all’urgenza di ripensare/ridefinire la centralità dell’Umano, dentro ecosistemi in cui non esiste più alcun confine tra naturale ed artificiale. Occorre, pertanto, ripensare a fondo l’educazione anche perché le straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, la velocità e l’intrinseca dinamicità del mutamento in atto, non ci stanno conducendo verso la semplificazione, anzi! Di conseguenza, informazione e comunicazione assumono una rilevanza ancor più strategica nell’interazione con la varietà, l’ambivalenza, l’imprevedibilità, la complessità dei processi. Governarle significa provare a dare senso e sistematicità a quella sterminata disponibilità di dati e informazioni; significa dover fare i conti con l’aumento di variabili/concause/parametri da considerarsi per poter osservare, descrivere, interpretare, comprendere i fenomeni. E, nel far questo, occorre prestare molta attenzione a non cadere nella logica dominante, e seducente, delle soluzioni semplici a problemi complessi, nelle retoriche della disintermediazione, nelle grandi narrazioni relative ad una democrazia diretta e semplificata, fondata su un’orizzontalità dei processi che, almeno per ora, può essere soltanto simulata e dichiarata. Sullo sfondo, il rischio di continuare a trattare i sistemi complessi come fossero sistemi complicati» (Dominici, 1996 e sgg.). Ancora una volta, poco consapevoli dei nostri limiti e della nostra incompletezza, poco consapevoli che: «La “nuova” velocità del digitale, nell’interazione complessa con il fattore umano e il sistema delle relazioni sociali, conserva l’ambivalenza originaria di qualsiasi “fattore” di mutamento e di qualsiasi processo sociale e culturale; un’ambivalenza che, oltre ad essere straordinaria opportunità, mette anche in evidenza i nostri limiti e le nostre inefficienze – a livello personale, organizzativo e sociale – ma, soprattutto, ci lascia poco tempo per la riflessione e l’analisi critica su ciò che accade e, più in generale, su una (iper)complessità che mette a nudo la radicale inadeguatezza dei paradigmi, dei modelli interpretativi, delle culture tradizionali e, ancor di più, dei moderni strumenti di controllo e gestione» (Dominici, 1996 e sgg.). Ripensare a fondo educazione, formazione e ricerca. Perché “democrazia è complessità” (1995). Ancora una volta, poco consapevoli che la complessità è una caratteristica strutturale/connaturata ai gruppi umani, alle relazioni, al sistema sociale, persino al mondo biologico e degli oggetti, pur se con alcune differenze. Per ciò che riguarda il mondo degli oggetti, possiamo parlare di sistemi complicati più che complessi, dal momento che siamo in grado di scomporne e analizzarne le parti per comprenderne il comportamento e il funzionamento. Si tratta di fenomeni e processi sostanzialmente “lineari” e, in qualche modo, prevedibili e replicabili. La complessità che riguarda, in modo particolare, le relazioni (sistemiche) e i gruppi umani, le organizzazioni, la società (con qualche sfumatura, anche i sistemi biologici) è una complessità del tutto particolare, perché non riconducibile né interpretabile sulla base di modelli lineari (causa-effetto, stimolo-risposta). Si tratta, pertanto, di una complessità non gestibile/governabile e, soprattutto, imprevedibile – la questione della prevedibilità, non soltanto dei comportamenti umani, sociali, culturali è cruciale e strategica (i modelli culturali servono anche a questo) – e non replicabile (la replicabilità, come noto, è requisito importante per la scienza e per poter anche soltanto parlare di “scientificità”) di cui dobbiamo osservare e comprendere soprattutto i molteplici livelli di connessione tra i processi e tra le parti/gli oggetti stessi e, per farlo, abbiamo bisogno di una visione sistemica dei processi, dei fenomeni e delle dinamiche: visione sistemica che comporta un modo completamente differente di osservare gli “oggetti” che – ripeto da anni – dovremmo anche riconoscere come “sistemi”, perché sono sistemi. Non solo osservare l’insieme e il tutto, consapevoli, in ogni caso, che il tutto non è mai la somma e/o la totalità delle parti. Pertanto, la questione dell’approccio è, ancora una volta, centrale, strategica, anche con riferimento alle questioni oggetto di questo contributo. Occorre recuperare, in tal senso, anche la consapevolezza che, proprio nell’era della disintermediazione, le figure (sociali e professionali), le istituzioni, i processi e i meccanismi di mediazione debbono tornare a svolgere una funzione, a dir poco, strategica. In particolare, le figure di mediazione, tornano ad essere ancor più strategiche, ma devono essere educate, preparate, formate, aggiornate costantemente, a riconoscere e confrontarsi con tale ipercomplessità, con la ricchezza delle relazioni sistemiche e dei livelli di connessione che caratterizzano, non soltanto la civiltà ipertecnologica, ma la vita stessa. A tal proposito, ho parlato, in tempi non sospetti, dell’urgenza di educare e formare “figure ibride” (1995 e sgg.), manager della complessità: figure ibride educate e formate, non ad una “cultura del controllo” (dentro una cultura del controllo), bensì educate e formate ad interagire con quell’imprevedibilità che è elemento connotativo essenziale dei sistemi sociali, umani, vitali. E – mi ripeto – senza mettere mano a educazione e formazione, in maniera radicale, non saremo mai in grado di confrontarci e interagire con questa ipercomplessità; e non saranno le tecnologie e il digitale a creare le condizioni perché ciò avvenga e, allo stesso modo, non saranno le tecnologie a ricostituire i legami sociali, a ri-attivare i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione, a determinare le condizioni di un’innovazione realmente inclusiva. Occorre lavorare per ri-costituire, per ri-mediare, il legame sociale.
Apertura | Non-linearità | Adattamento. E la complessità riguardante i sistemi sociali e organizzativi è una complessità del tutto particolare: parliamo, in tal senso, di “sistemi complessi adattivi” segnati da dinamiche non lineari – imprevedibilità, incertezza, ambivalenza e instabilità – non riconducibili/riducibili alla sola applicazione di formule matematiche e/o sequenze di dati. Una ipercomplessità (1996) difficile da governare anche all’interno di contesti in cui le “dimensioni” della programmazione, della simulazione e del “tecnologicamente” controllato, risultano particolarmente estese ed evidenti. Nonostante l’avvento della cd. rivoluzione digitale – di cui continuiamo a sottovalutare le implicazioni epistemologiche e le reali potenzialità – molte organizzazioni continuano ad essere ancorate a vecchi miti dell’efficienza e della razionalità, che identificano nel «fattore giuridico» e nel «fattore tecnologico» le uniche condizioni necessarie per innovare e gestire, sottovalutando i fattori sociali, relazionali, culturali, il benessere organizzativo. Allo stesso tempo, sistemi e organizzazioni complesse devono sempre più confrontarsi e interagire con ecosistemi caotici e disordinati ma sempre più interdipendenti e interconnessi. Di fondamentale importanza è, in tal senso, il cambiamento delle culture organizzative sia nel pubblico che nel settore privato (lungo periodo). Quelle stesse culture organizzative che, spesso, provano a rallentare, quasi a frenare, la rapidità del mutamento in atto soprattutto perché non preparate ed adeguatamente formate a metabolizzare l’innovazione e il cambiamento. Perché, come ribadito anche in tempi non sospetti, i processi di innovazione e cambiamento “camminano sempre sulle gambe delle persone”. (Provare a) Governare la complessità (mi si passi la forzatura, la complessità non si gestisce/controlla né si governa) ci chiede di ripensare a fondo educazione formazione, cercando di ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico (cit.), andando oltre la separazione tra cultura e tecnologia. Perché il futuro è delle “figure ibride” (Dominici, 1996 e sgg.). dei manager della complessità (definizione che uso anche per motivi di sintesi), di coloro che sapranno scorgere nei confini, nelle tensioni e nelle distanze, delle opportunità. Anche perché abitare l’ipercomplessità*, organizzativa, sociale, umana, vitale, non è soltanto saper gestire/controllare le tecnologie e i nuovi ambienti iperconnessi, sfruttandone al massimo le potenzialità. Tecnologia vs. Cultura  Tecnologia e Cultura  Tecnologia è Cultura/e…evoluzioni complesse.

Fake News e Post-Verità: patologia o sintomo?

Riprendendo e sviluppando “vecchi” percorsi personali di ricerca (percorsi di ricerca fin dal 1995), cercherò di inquadrare le questioni in un discorso di senso più ampio, provando come sempre ad evidenziare correlazioni e livelli di connessione e cercando di non cadere negli slogans e/o nella banalizzazione delle questioni.
La mia opinione è che, sia per ciò che riguarda le cd. “bufale” (o il cd. fast checking) che la cd. “post verità” (sia chiaro: si tratta dell’ennesimo tema e concetto spacciato per originale, “nato oggi”), continuiamo a ragionare in una logica e in un quadro di riferimento teorico-pratico-applicativo che sono, sempre e soltanto, quelli dell’emergenza e del controllo totale (con riferimento all’informazione, infatti, si parla anche di censura…), con il conseguente coinvolgimento, esclusivo, dei soliti saperi e competenze (tecniche e giuridiche); intendiamoci, si tratta di dimensioni strategiche importanti che vanno affrontate e approfondite che, tuttavia, mettendo comunque e sempre al centro dell’analisi, della gestione dei processi e dell’individuazione di possibili soluzioni (?) gli “strumenti”, i media e la loro “natura” tecnologica, le dimensioni giuridiche ed economiche, non tengono mai nella dovuta considerazione i “fattori sociali e culturali”, ambientali e di ecosistema, le caratteristiche e le dinamiche tipiche delle reti sociali, pre-esistenti alle reti digitali, al web ed agli stessi social. Variabili tipiche della complessità sociale, relazionale e comunicativa che vanno integrate in un approccio critico e sistemico a tale ipercomplessità. Variabili, processi e dinamiche che sono quelli, per esempio, dell’eterodirezione (

[1] Il concetto di eterodirezione è di David Riesman (1950), il quale la definisce come “atteggiamento attivo” in cerca della conformità di comportamento, attraverso una eccezionale sensibilità per le azioni e i desideri degli altri; tale atteggiamento riguarda  attori sociali e soggettività che si rivelano poi incapaci di autonomia di giudizio e decisionale #CitaregliAutori), della ricerca di “prossimità culturale”, della socialità e del conformismo (non da oggi, dilagante), dell’appartenenza e del gruppo di riferimento. E ci ritroviamo all’interno di una visione complessiva, relativa a tali processi e interazioni complesse, tuttora avvolta nell’illusione del controllo e della prevedibilità pressoché totali.
Il problema “vero” non sono le bufale o la post verità, ma le Persone, i Cittadini, il loro essere facilmente condizionabili…la loro eterodirezione e “predisposizione” – socialmente e culturalmente “costruita” attraverso l’educazione e i processi di socializzazione – al conformismo e/o alla “sudditanza per abitudine culturale”, come avrebbe detto Étienne de La Boétie.
Il problema è e continua ad essere lo stesso: si discute tanto, con sempre maggiore frequenza e insistenza e si pongono tutte le questioni, inerenti la rivoluzione digitale e la società della condivisione (1996), l’informazione e la condivisione/distribuzione delle informazioni e delle conoscenze, in termini di gestione dell’emergenza attraverso “strumenti” e “applicazioni” più o meno sofisticati e complessi (algoritmi, piattaforme etc.) – oltre che di leggi e codici deontologici, linee guida, manifesti – che devono orientare, guidare, indirizzare il lettore, l’ascoltatore, il telespettatore, l’internauta, il cittadino ma anche il giornalista e/o il comunicatore. Con un approccio che è a metà tra il determinismo tecnologico e il positivismo giuridico, un approccio che sottovaluta tutta una serie di implicazioni del complesso processo di mutamento in atto, non ultime quelle di carattere epistemologico.
Ebbene, al contrario di quanto discusso, attuato e praticato (tutte condizioni necessarie ma non sufficienti), bisognerebbe ripartire proprio da quei fattori considerati, al di là dei proclami e degli slogan, meno importanti e decisivi: dall’educazione e formazione critica della Persona anche nel suo ruolo di lettore, ascoltatore, telespettatore, navigatore, ma soprattutto di “cittadino” che non è soltanto “consumatore” (logica e strategia di lungo periodo). Sono trascorsi molti anni da quando ne abbiamo discusso la prima volta: ma, nel quadro di un ripensamento complessivo e radicale dell’educazione e dei processi educativi, l’urgenza più evidente continua ad essere quella di ribaltare la prospettiva dominante che vede, nei destinatari/referenti dei flussi informativi (conoscitivi), esclusivamente delle pedine da manovrare, quasi dei “burattini” da guidare, accompagnare, istruire (naturalmente “dall’alto”), persuadere, manipolare (sicuramente…a fin di bene!) verso una “buona e corretta informazione”.
Si tratta di un approccio estremamente rischioso, perfino pericoloso, per tanti motivi che hanno a che vedere anche, e soprattutto, con alcuni diritti e libertà fondamentali e, di conseguenza, con la qualità della cittadinanza e della democrazia. Si tratta di un “approccio” che, con tutte le possibili sfumature e peculiarità delle relative discipline di riferimento, continua ad essere dall’alto verso il basso: più impegnativo lavorare sulla responsabilità e la formazione di chi informa e comunica, più impegnativo, e senz’altro meno visibile (soprattutto nel breve periodo, che è il tempo della politica e di una certa idea/visione del potere), lavorare sull’educazione e formazione delle “teste” dei destinatari e delle Persone: un’educazione al dubbio, all’incertezza, alla responsabilità, al pensiero critico, alla complessità, ad una nuova “cultura dell’errore” (1995); un’educazione sviluppata praticando e diffondendo il “metodo scientifico” – con la consapevolezza delle relative criticità – e un atteggiamento di critica e curiosità verso tutto, un atteggiamento che non può che essere investigativo, di confronto con gli Altri, di decodifica di segnali, più o meno complessi, e di reperimento delle “prove” a supporto anche delle nostre e delle altrui argomentazioni. Un’educazione che possa abilitare finalmente le Persone e i cittadini sia a saper verificare/falsificare tesi, argomenti e informazioni di qualsiasi genere, che a confrontarsi soprattutto con chi non ha le stesse idee/opinioni o che, magari, è stato etichettato/riconosciuto come “diverso da Noi”. Un’educazione ed una formazione che, evidentemente, avrebbero ricadute significative anche nella gestione del cambiamento e nell’individuazione di soluzioni (?) realmente innovative. Oggi, forse come mai in passato, occorre recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa (Dominici 1996-2017): l’empatia, il pensiero critico, una visione sistemica dei fenomeni, l’educazione alla comunicazione, oltre a dimensioni che abbiamo volutamente rimosso, come le emozioni, l’immaginario e la creatività. Significa ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le istituzioni formative ed educative, rilanciare l’educazione nella prospettiva sistemica di una educazione che non può che essere socio-emotiva. Dal momento che, proprio in questa civiltà ipertecnologica, innervata da sistemi complessi (interdipendenti e interconnessi), dominata dalla tecnica e dalle tecnologie (sempre più invasive) e animata da nuove utopie e distopie, continuiamo a ripetere e perpetuare l’errore più grave, un errore a dir poco strategico, definito in passato il “grande equivoco” (ibidem): credere che servano un’educazione ed un formazione esclusivamente di natura “tecnica” e tecnologica, con uno schiacciamento sul “saper fare”, e credere che educazione e formazione vadano semplicemente adeguate al cambiamento tecnologico, ridimensionando progressivamente lo spazio per le discipline umanistiche e più creative (arti e forme estetiche comprese). Recuperare tali dimensioni si rivela di vitale importanza anche, e soprattutto, in considerazione del fatto che le straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, la velocità e l’intrinseca dinamicità del mutamento in atto, non stanno “conducendo” la realtà, il sistema-mondo, gli ecosistemi interconnessi/iperconnessi, Noi, verso la semplificazione, anzi!
Mentre l’approccio e l’impostazione dominanti su tali questioni (e non solo), anche nelle successive fasi di individuazione e definizione di azioni e strategie (un discorso che chiama in causa le solite narrazioni egemoni e certo storytelling), pur con tutte le buone intenzioni e gli obiettivi assolutamente condivisibili, continuano ad essere centrati – come detto – oltre che specificamente sugli strumenti e le tecnologie, su una visione del Soggetto (degli attori, individuali e collettivi) come completamente passivo e facilmente manipolabile (le criticità, in tal senso, sono molte). Logiche, strumenti e obiettivi anche “positivi”, talvolta condivisibili nella prospettiva di contrasto dell’emergenza – che, vorrei ricordarlo ancora una volta, è educativa e culturale – che, tuttavia, possono incidere ben poco, per non dire nulla, sulle dinamiche più profonde e radicate che caratterizzano i gruppi (inclusione vs. esclusione, identità vs. riconoscimento, etichettamento, potere, conflitti etc.), l’eterodirezione, il conformismo, i bisogni di socialità e appartenenza, di stima e riconoscimento (da parte degli altri); ma anche la formazione di stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni che sono, di fatto, il terreno su cui germogliano e crescono le bufale, la disinformazione, le narrazioni, la/le post verità, le strategie di persuasione e marketing più aggressive.
Detto in altri termini, proseguiamo a ragionare e lavorare soltanto sugli strumenti e sulle soluzioni di breve periodo (possibilmente, semplici), continuando a mettere un po’ in secondo piano le persone e le soggettività che devono/dovranno interagire con questi stessi strumenti e con gli ecosistemi comunicativi. Ciò che dobbiamo continuamente domandarci è sempre: su chi deve essere posta l’attenzione? Da che cosa dobbiamo ripartire per correggere errori, questioni e problematiche che sono strutturali e che appartengono, evidentemente, alla dimensione educativa e culturale? Una dimensione – lo ribadiamo – strategica per la stessa sopravvivenza delle moderne democrazie, troppo spesso sottovalutata o, comunque, non adeguatamente considerata.
Il lavoro fondamentale da farsi – e che non viene fatto – è sulle Persone e sugli spazi relazionali e comunicativi che abitano; con la consapevolezza che non sono, e non possono essere, la tecnologia e il digitale a garantirci fino in fondo “protezione” e “sicurezza”. Allo stesso modo, non sono, e non possono essere, la tecnologia e il digitale a garantirci in termini di cittadinanza e inclusione, soprattutto in una fase così delicata in cui – come ripeto da anni – le “regole d’ingaggio” della cittadinanza non sono più definite dal cd. Legislatore. La tecnologia (e il digitale) non può essere, altresì, la nostra difesa contro l’inganno, le truffe, i falsi, il conformismo, la/le post verità etc. I nostri principali “strumenti di difesa” sono, e saranno sempre, l’educazione, l’istruzione, la formazione, l’aggiornamento continuo e la ricerca.
Da questo punto di vista, l’impressione talvolta è quella di dirigerci in maniera lenta, ma inesorabile, verso una società dell’ignoranza (2009) incardinata su un modello feudale – che le reti digitali riproducono ed estendono, lasciando tuttora pochi margini di manovra – che prevede una mobilità sociale esclusivamente di tipo orizzontale. Tali questioni si vanno ad aggiungere alla ben nota correlazione esistente tra educazione e innovazione, tra educazione e inclusione, tra educazione e democrazia. Con tutti i rischi e le opportunità che la civiltà ipertecnologica porta con sé; su tutti quello che, in passato, ho definito il rischio della “delega in bianco” alla tecnologia (1995 e sgg.) rispetto alle questioni, assolutamente vitali per i sistemi sociali e le organizzazioni, riguardanti il controllo, la razionalità, la protezione, la sicurezza, la fiducia, il legame sociale. Si tratta di un altro aspetto non secondario e su cui torneremo: nella cd. società della conoscenza e della trasformazione digitale, esiste infatti un sentimento (una percezione) estremamente diffuso, anche in ambito scientifico, legato all’illusione utopica, e utopistica, che saranno le tecnologie e il digitale (insieme a leggi e normative varie) a risolvere qualsiasi problema/conflitto anche in termini di protezione e sicurezza, di ricostituzione del legame sociale, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti della prassi organizzativa e sociale; saranno le stesse tecnologie (e gli ambienti tecnologici) a difenderci dalla propaganda (anche la più sofisticata), dalla pubblicità e dalle strategie di marketing (anche le più aggressive) e, più in generale dalle falsità, dalla disinformazione casuale e pianificata, dalle bufale e dalle truffe, da qualsiasi rischio e pericolo. Le tecnologie sono e saranno sempre utili e indispensabili ma – mi ripeto – certe questioni vanno risolte ponendo l’attenzione, anche e soprattutto, su altre variabili e concause, allargando il ventaglio dei saperi e delle competenze coinvolti in una prospettiva che non può che essere interdisciplinare, multidisciplinare, transdisciplinare. E non mi stancherò mai di ripeterlo: propaganda, manipolazione, persuasione (più o meno occulta), disinformazione, bufale (e lo stesso fact checking), narrazioni, storytelling, post verità etc. sono processi, dinamiche e strumenti, sempre esistiti così come la loro ideazione, progettazione e diffusione sistematica: ad essere cambiati sono l’ecosistema (globale) dell’informazione e della comunicazione e le relative architetture che rendono, senz’altro, più virale e invasiva la loro diffusione, anche e soprattutto in termini di tempo.
Nello sviluppare e affrontare le suddette questioni, dobbiamo sempre considerare tutta una serie di fattori e criticità che intercettano livelli di analisi e intervento differenti non più trascurabili:
– l’assenza di un sistema di pensiero e di una visione sistemica e la contemporanea sottovalutazione della importanza della ricerca sul pensiero e sull’educazione ([2]  Ibidem..);
– l’assenza di politiche (lungo periodo) relative all’istruzione, all’educazione, alla formazione, alla ricerca;
– l’inconsistenza e l’inadeguatezza degli investimenti in istruzione, educazione, formazione e ricerca (OCSE, ISTAT etc.);
– istruzione, educazione, formazione e ricerca, stentano ancora ad essere riconosciute (concretamente) e percepite come la vera infrastruttura del cambiamento e di un’innovazione che non può essere per pochi;
– Scuola e Università continuano ad essere pensate, immaginate, progettate, come entità separate (1998);
– l’assenza di politiche di orientamento, totalmente delegate a pratiche di marketing;
– il trionfo del principio ingannevole dell’utilità dei saperi e della conoscenza;
– l’errore di continuare a rincorrere il mercato e le imprese, in un’epoca di rapida obsolescenza di tutte le conoscenze, le competenze, i profili formativi e professionali;
– il dominio e l’egemonia di una cultura della standardizzazione ( [3] Si vedano in particolare: Robinson, K. (2015), Scuola creativa. Manifesto per una nuova educazione, Erickson, Trento 2016; Hammersley M.(2013), Il mito dell’evidence-based, Raffaello Cortina Ed., Milano 2016) che pervade tutta la cultura della valutazione e della comunicazione;

Il dito e la luna….
In altre parole, è giunto il tempo di prestare attenzione e non far confusione, allargando il nostro sguardo: come già detto, il “vero” problema, a mio parere, non è tanto quello delle bufale o delle post verità, che vanno disvelate e contrastate, prima di tutto provando ad interrogarci se, molto banalmente, queste siano cause o effetti (non condivido tale linearità, la uso solo per semplificare) di complesse dinamiche. In altre parole, se costituiscano la “patologia” di un sistema – e mi riferisco non soltanto al sistema dell’informazione – o siano i sintomi di ben altre criticità che, per tante ragioni, non vengono esplicitate. E, oltre alla centralità strategica di istruzione, educazione, ricerca e formazione, una centralità più volte richiamata in questi anni, dobbiamo fare i conti con un’altra questione: quella riguardante una Politica e dei regimi democratici non più in grado, da tempo, di definire e realizzare le contromisure che davvero sarebbero necessarie per contrastare, a questi livelli, tali preoccupanti derive; derive che sono, in primo luogo, economiche e legate ai sistemi di potere ed ai cd. “cannibali digitali” che, di fatto, hanno in mano e governano il nuovo ecosistema. Ma la Politica – come scrivemmo anni fa – è da tempo “ancella” del potere economico e della tecnocrazia globale e non sembra più in grado di recitare il suo ruolo fondamentale di mediazione e negoziazione dei conflitti e delle pratiche di conflitto, che definiscono le nuove disuguaglianze e le nuove asimmetrie, a livello locale e globale.
Il rischio, estremamente concreto e correlato ad una serie di altri rischi (opportunità), è quello che se non proviamo a correggere da subito questo approccio/visione e questa impostazione generale, in atto in qualche caso anche a livello internazionale, tra qualche tempo, avremo molto probabilmente anche meno bufale e disinformazione in circolazione (sarebbe certamente un buon risultato, ma non basta!), ma continueremo ad avere a che fare e a confrontarci sempre più di frequente (basti pensare a dati e ricerche su analfabetismo, non soltanto funzionale, e povertà educativa, di cui finalmente si comincia a parlare un po’ di più) con una società civile e con opinioni pubbliche costituite da individui eterodiretti, iperconnessi e, talvolta, anche super informati, ma sostanzialmente isolati e facilmente condizionabili. Franco Ferrarotti ha parlato addirittura, in tempi non sospetti, di “frenetici informatissimi idioti”! E, non a caso, parlai anni fa di una “nuova società di massa” iperconnessa e del rischio che si affermasse una “cittadinanza senza cittadini”. E magari ci ritroveremo a dover fare i conti con un sistema, sempre più interconnesso e interdipendente, che, per esempio, potrebbe puntare ad eliminare certe informazioni perché non allineate, “non adeguate”, non conformi a certi dettami e linee guida, “non corrette” secondo certe visioni.
L’impressione è che continueremo, anche in futuro – in una sorta di eterno ritorno dell’identico a sé stesso – a contrastare tali criticità, sempre e comunque, ricorrendo alle solite logiche dell’emergenza arricchite, al livello delle narrazioni, dalle solite contrapposizioni – che tutti dichiarano (soltanto) di voler abbandonare – tra apocalittici e integrati, tra tecno-scettici e tecno-entusiasti, oltre che dalla consueta, e insopportabile, polarizzazione del dibattito, che porta sempre a vedere tutto con le lenti dell’ideologia, della faziosità, dell’appartenenza politica. Derive e traiettorie che impediscono qualsiasi (reale) approfondimento e rafforzano opinioni, luoghi comuni, stereotipi, visioni del mondo già abbondantemente consolidati. Cosa che, spero, non si verifichi almeno in questo caso.
Allo stesso tempo, non è inutile ripeterlo, non saranno le tecnologie e il digitale a ricreare/rinforzare il legame sociale, né tanto meno a rigenerare i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione (Dominici, 1996 e sgg.). Devo dire che, forse, su questi punti/snodi problematici, sembra che il clima culturale dia qualche timido segnale di cambiamento: pur se con significativo ritardo, molti di coloro che, nelle loro analisi (scripta manent), erano strettamente legati ad un rigido determinismo tecnologico, oltre che a spiegazioni riduzionistiche, attualmente parlano/scrivono di educazione, di centralità della Persona, di pensiero critico, di educazione al metodo scientifico ed alla complessità (sostenendo, peraltro, che questa possa essere controllata…); perfino, di visione sistemica. Temi e questioni cui, in passato, non erano minimamente interessati, di più li consideravano “superati”, “non degni di nota”, arrivando talvolta perfino a deridere chi sosteneva il contrario; chi poneva, cioè, in una prospettiva sistemica, l’educazione e i processi educativi (e formativi) – e, con questi, i rapporti di potere – al centro di qualsiasi processo di mutamento e cambiamento. Continua, in tal senso, il dominio incontrastato, a livello mediatico e di discorso pubblico, di coloro che, attraverso anche una strategia aggressiva sui social e online, riescono a costruirsi un’immagine/reputazione di super-esperti in tutto, ma proprio in tutto. Super-esperte/i che, di volta in volta, vedono nella dimensione della prassi tecnologica e nelle tecnologie gli “unici” fattori generativi ed evolutivi in grado di modificare i sistemi sociali e le organizzazioni. Si pensi anche all’attuale dibattito su intelligenza artificiale e algoritmi…raccontati quasi come fossero entità soprannaturali e metafisiche. Spostando l’attenzione dai rapporti di potere (sempre decisivi) e dall’interazione complessa tra l’umano e il tecnologico, tra l’umano e la tecnica, tra il “dentro” e il “fuori” di NOI.
In conclusione, credo che tutte le analisi condotte (e che si condurranno ancora in futuro) su narrazioni, bufale, fact checking, post verità, disinformazione, ma anche cittadinanza e inclusione etc., andrebbero inquadrate anche in un discorso, ancora più ampio e di carattere generale, riguardante lo stato di salute e la qualità della democrazia contemporanea. Consapevoli di doverci confrontare con il conformismo dilagante e il bisogno inarrestabile di prossimità culturale e appartenenza, che da sempre caratterizzano (non soltanto) gruppi, reti ed ecosistemi umani. Profondamente consapevoli che, per molto tempo ancora – soprattutto se non ripensiamo a fondo educazione, formazione e ricerca -, la rivoluzione digitale e il nuovo ecosistema globale, rimarranno un’irripetibile, oltre che straordinaria, opportunità “per pochi”.
#CitaregliAutori

 

Piero Dominici

Professore e ricercatore universitario, insegna Comunicazione pubblica e Attività di Intelligence presso l’Università degli studi di Perugia. Formatore professionista, è Visiting Professor presso l’Universidad Complutense di Madrid e ha tenuto lezioni e conferenze in numerosi atenei nazionali e internazionali. Scientific Director del Complexity Education Project e Director (Scientific Listening) presso il Global Listening Centre. È Membro dell’Albo dei Revisori MIUR e del WCSA (World Complexity Science Academy), fa parte di Comitati scientifici nazionali e internazionali. Si occupa da vent’anni di complessità e di teoria dei sistemi con particolare riferimento alle organizzazioni complesse ed alle tematiche riguardanti l’educazione, l’innovazione, la cittadinanza, la democrazia, l’etica pubblica. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

 

 

Riferimenti bibliografici e percorsi di approfondimento

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