Apocalypse Trump. Un presidente americano tra Mao e Andreotti, di Stefano Grazioni, Ares, Milano 2018, pp. 200, euro 15. Prefazione di Ferruccio de Bortoli.
Abbattimento del sistema, movimentismo, disintermediazione con gli elettori, difesa della maggioranza silenziosa e della classe operaia: il messaggio politico di Donald Trump è sempre stato consapevolmente e orgogliosamente “apocalittico”. Questo libro cerca di analizzare la natura politica dell’attuale presidente americano, mostrando le cause strutturali che gli hanno consentito di conquistare la Casa Bianca nel 2016.
Trump è un fenomeno complesso, figlio della rabbia scatenatasi a causa della Guerra in Iraq e della Grande Recessione. Sono proprio questi due elementi, d’altronde, ad essere stati abilmente cavalcati dal magnate newyorchese che – in modo non dissimile dal senatore socialista Bernie Sanders – ha guidato una campagna elettorale puramente anti-sistema e non poco ostile al professionismo politico.
Pur alla luce di indubbi tratti innovativi, il libro mostra come la novità di Trump vada ridimensionata e ricondotta nell’alveo della Storia americana. Il magnate newyorchese, sotto questo aspetto, vanta infatti almeno un precedente: quello di Ronald Reagan. Quando conquistò il Partito Repubblicano nel 1980, anche l’ex governatore della California avviò una mutazione genetica in seno all’elefantino, introducendo elementi ideologici sino ad allora eterodossi, aprendosi a nuove quote elettorali e silurando esponenti legati alla vecchia classe dirigente.
In questo senso, il libro tenta anche un’analisi della leadership trumpiana: una leadership fondamentalmente bonapartista, basata sul contatto diretto (e quasi plebiscitario) con le folle. Una leadership che mal si adatta alla natura del sistema istituzionale americano, il quale tende notoriamente non soltanto a bilanciare i vari poteri costituzionali ma anche a diluire l’eccessiva energia dell’investitura popolare.
Per questa ragione, il magnate ha alla fine dovuto adottare un approccio ambivalente. Un approccio, cioè, costantemente oscillante tra due modelli antitetici: Mao Zedong e Giulio Andreotti. Da una parte, Trump ha continuato a mantenere la sua linea movimentista, sottoponendo inoltre la sua Amministrazione a frequenti scossoni. Una strategia che, nonostante un certo dilettantismo, sembra comunque richiamare alcune caratteristiche della Rivoluzione Culturale: il presidente tiene collaboratori e ministri sulla corda ed è pronto a silurarli ad ogni minimo accenno di disaccordo o ribellione. L’idea è, cioè, quella di evitare l’emergere di eminenze grigie o cristallizzazioni di potere che possano contrapporsi alla sua volontà.
Dall’altra parte, tuttavia, il magnate ha dovuto comprendere che un simile approccio a lungo andare poteva risultare controproducente. In tal senso, ha dovuto rivolgersi al modello andreottiano della politica dei due forni: oscillando diplomaticamente, cioè, tra le varie correnti in seno al Partito Repubblicano e – in alcuni casi – aprendo anche ai nemici democratici.
Il trasversalismo (un po’ camaleontico) dell’attuale presidente può renderlo adatto a perseguire riforme bipartisan (dalle infrastrutture al commercio internazionale). Una caratteristica che – con il Congresso spaccato in due dopo le ultime midterm – potrebbe rivelarsi addirittura provvidenziale. Il libro mostra, insomma, come la rivoluzione trumpiana non sia un fenomeno improvviso, ma l’esito di una crisi profonda: lo specchio di un nuovo paradigma che – per quanto paradossale possa a prima vista sembrare – ha forse avuto il suo esplosivo inizio nel 2008: con la vittoria di Barack Obama.