Intervento di Derrick de Kerckhove durante il convegno: “Strumenti e metodi di contrasto alla disinformazione online” organizzato da Agcom lo scorso 10 maggio a Milano.

“A gennaio del 2017 l’Agi riportava un articolo, tratto dal Financial Times, sulle fake news che Ottaviano (il futuro “Augusto”, primo imperatore di Roma) avrebbe diffuso per screditare il suo rivale diretto al potere, Marco Antonio, dopo l’assassinio di Giulio Cesare. È risaputo che le fake news sono sempre esistite e che l’uso di notizie false o artefatte è sempre stata un’arma politica efficacissima quanto difficilmente smascherabile, fin dai tempi antichi. Mi sono chiesto che tipo di comunicazione usasse Ottaviano all’epoca per raggiungere il suo scopo e credo che, grossomodo, il pettegolezzo, il passaparola e le dichiarazioni pubbliche fossero gli strumenti principali. Più o meno come oggi.
Ma, nell’evidenziare le differenze con il passato, soffermiamoci sulle problematiche psicologiche derivanti delle fake news. È chiaro che viralità, velocità e volume devono essere parte integrante dell’analisi ma come facciamo a identificare i creatori delle “bufale” e quali meccanismi partecipano al loro sviluppo smodato? A mio parere ci sono due aspetti chiave da analizzare: il primo è la perdita del referente (o dell’uso del referente nella convergenza tra il produttore del messaggio e il ricevente), il secondo riguarda la confusione tra soggettività e oggettività. Da ciò nasce un nuovo problema epistemologico, assolutamente connaturato all’attualità: il rapporto tra la verità e la dichiarazione non è più (almeno per la maggioranza delle persone) importante. Si prenda ad esempio il concetto di “viralità”: ogni giorno riceviamo decine di notizie e a nostra volta le rilanciamo basandoci non sulla lettura o sull’interesse che queste ci suscitano, ma sulla prossimità che il titolo, le poche righe di anteprima o chi ce le ha inviate, rappresentano per noi. E così alimentiamo il flusso di quel singolo contenuto che si somma al volume totale dei contenuti trasmessi a una velocità sempre maggiore. In questo processo, dove si situa il referente? Se prendiamo come base il triangolo semiotico di Saussure, infatti, laddove abbiamo il significante e il significato che sono, indissolubilmente, tenuti insieme dall’esistenza del terzo vertice, ossia del referente, non possiamo che constatare una grave crisi di tutto il sistema dell’epistemologia. Venendo a mancare l’elemento di realtà che garantisce allo scrivente e al lettore (o al parlante e all’ascoltatore) la sicurezza che un dato suono corrisponda a un dato concetto, tutto entra in crisi. Sembra che oggi per il lettore/ascoltatore basti solo la dichiarazione per costruire la verità, anzi, sembra che si disinteressi della verità, l’importante è la dichiarazione. Secondo gli psicologi e gli epistemologi questa sparizione del referente (e il conseguente disinteresse per la verità) coincide con un attacco alla realtà. In un mondo di finte verità, quindi, le immagini e il movimento non possono più essere garanzie di veridicità, tutto confluisce nei cosiddetti “big data” che diventano una fonte di risposte senza domande. È sufficiente fare la domanda per arrivare alla risposta ma il referente non precede la domanda dentro i “big data”. Si pensi anche alla nascita di quello che io chiamo “inconscio digitale” (tutto ciò che si sa su di te che tu non sai) e al fatto che deleghiamo sempre più funzioni cognitive a un sistema del quale, nella stragrande maggioranza dei casi, ignoriamo il funzionamento. Ignoriamo anche che in maniera sempre più semplice si possono usare il volto o la voce di una persona per far dire al nostro bersaglio cose che non ha mai detto o posizionarlo in situazioni alle quali è estraneo. In tal modo si verifica anche un “collasso temporale” del referente, originando situazioni ancora più complesse da analizzare in cui una nozione non è falsa, ma non è vera (nel senso che non è mai accaduta nella realtà sensibile). In ultima analisi stiamo uscendo da un mondo in cui la soggettività e l’oggettività sono separate per entrare in un mondo in cui esse si confondono o, addirittura, si fondono. In un certo senso ci stiamo avvicinando a un modello di società simile al Medioevo: in quell’epoca la percezione della propria soggettività era scarsa e poco rilevante. Per noi, invece, il “sé” è molto importante, viviamo del nostro “sé”, eppure lo stiamo perdendo. Si pensi al “gemello digitale”: tutto ciò che si sa o abbiamo detto di noi, i nostri gusti, le idee che abbiamo condiviso, il nostro profilo commerciale, culturale, intellettivo, tutto ciò che fino a poco tempo fa era sparso nella rete, si andrà a raccogliere in una sorta di nostro duplicato digitale che dovrebbe farci da assistente in questo nuovo paradigma. Il “sé interiore” che mi sono costruito dall’infanzia con le esperienze, l’educazione, la crescita… e che costituisce il tramite attraverso cui il mio corpo si relaziona con il mondo, si esteriorizza e si riforma in un doppio che non è reale, nel senso ontologico del termine, ma esiste on-line. Non è più sufficiente usare lo smart-phone o il pc per cercare una risposta su Google; stiamo cercando di produrre un nuovo soggetto che, mediante l’intelligenza artificiale, si relazioni con la realtà al posto nostro e in nostra vece.
Quali effetti psicologici producono questi processi? Ad esempio il fatto di credere a una notizia falsa, dimostrata falsa, smontata pezzo per pezzo e sostituita dalla replica esatta, nonostante tutto. Non importa più che mi si sveli la falsità della notizia, ci credo perché scelgo di crederci. Quella che Spinoza chiamava la “precondizione” necessaria al recepimento di una data informazione, cioè le nostre convinzioni, conoscenze, credenze pregresse alle quali si indirizza tale informazione proveniente dall’esterno, oggi diventa requisito fondamentale e, spesso, non verificato perché l’informazione sia accettata o meno. A prescindere dalla sua valenza effettiva e dalla sua veridicità. Come chiosava Mcluhan più di un secolo dopo: “Non l’avrei visto se non ci avessi creduto”. Inoltre, si ha un ulteriore mutazione epistemologica: dalla logica sequenziale all’eco-logica algoritmica; oltre che un rovesciamento del vettore temporale: la linearità del tempo come l’abbiamo sempre intesa si modifica e il presente si espande a dismisura diventando una sorta di “adesso” generalizzato.
D’altronde, è inutile pensare a come invertire questi fenomeni: il mondo sta evolvendo in quella direzione e noi stessi siamo già, in parte, digitalizzati. Gli effetti negativi principali li abbiamo analizzati: estinzione della veridicità delle notizie, impatto divisivo sul tessuto sociale e diminuzione (o perdita) delle relazioni significative, rovesciamento della personalità dall’interno all’esterno, redistribuzione del sé, caos politico (terrorismo, populismo). La conseguenza è: meglio affidarsi a una “democratura” o alla “datacrazia”? La dimensione politica della democrazia vuole che ciascuno di noi abbia qualcosa da dire all’interno di un sistema generale, invece la “datacrazia” racchiude in sé la legge, la medicina, la finanza… e delega tutto a un’intelligenza artificiale. Si pensi alla Cina, dove il sistema dei “social credits”, cioè le valutazioni, voti e commenti, che la nostra rete sociale esprimono su di noi, è già una realtà e influenza le persone nella vita reale determinando se possano o no accedere a determinati luoghi, ottenere determinate cose ecc.
In conclusione, la direzione verso la “datacrazia”, con gli esperimenti già in atto in luoghi come la Cina e l’evoluzione che finora hanno le nostre società sembra portarci verso un mondo in cui l’individuo conterà sempre meno perché non avrà la forza, e forse neanche la consapevolezza, per contrastare le limitazioni del suo potere di scelta. Sta a noi, oggi, limitare i poteri dei “big data”, iniziare dei percorsi di educazione digitale seri fin dall’infanzia, e reclamare il nostro diritto di fronte alle grandi multinazionali digitali, superando i conflitti tra le persone e i giochi di potere dei gruppi finanziari al fine di creare un futuro che sia sostenibile anche per le nostre individualità al di fuori della rete”.

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Sabato Angieri
Laureato in “letteratura europea” presso l’università “La Sapienza”di Roma è giornalista freelance e traduttore editoriale, ha collaborato a diversi progetti culturali e artistici come autore e scrittore. Attualmente collabora con Lonely Planet come autore e con Elliot edizioni.