Il riconoscimento dello status giuridico di “rifugiato ambientale” è sempre stata una questione particolarmente controversa sul piano del diritto internazionale, come afferma Cristina Cattaneo del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. Ma attualmente, a seguito anche dell’attenzione senza precedenti, manifestata dal neo-presidente americano Biden, rispetto alla prospettiva di una protezione umanitaria verso le persone che migrano a causa dei disastri naturali, sia diretti sia indiretti, il problema potrebbe essere ad un punto “di svolta” in relazione proprio al riconoscimento internazionale di tale condizione. Il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, infatti ha ricevuto il mandato di valutare in un rapporto “le opzioni per la protezione e il ricollocamento di individui sfollati direttamente o indirettamente dal cambiamento climatico”. Nel quadro di questo programma, verrebbe quindi riconosciuto il principio essenziale di “multi-casualità” dei fenomeni migratori su cui si colloca la sostanziale differenza tra “migrante economico” e “migrante ambientale”. In virtù di questa distinzione, il provvedimento mirerebbe non soltanto al “riconoscimento” e alla “protezione”, ma anche alla “ricollocazione” del rifugiato, il cui onere non ricadrebbe solo sui paesi di frontiera ma “esigerebbe” un coinvolgimento internazionale. La relazione di Sullivan prevede, inoltre, delle valutazioni tecniche da parte dei diversi servizi di competenza, tra cui quello di sicurezza interna, affari esteri, difesa, sviluppo internazionale e intelligence. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che, entro il 2050, circa 200-250 milioni di persone saranno costrette a migrare per cause legate al cambiamento climatico, da cui si evince che in un futuro una persona su quarantacinque diventerà un migrante ambientale. L’attuale secolo è stato infatti ridefinito “il secolo dei rifugiati ambientali” proprio in virtù dell’ingente numero, che coinvolge milioni di persone, di migranti forzati o volontari per cause ecologiche legate ad eventi atmosferici estremi, come inondazioni, siccità, terremoti, uragani, desertificazioni (tutte conseguenze del Global Warming). Naturalmente i Paesi più vulnerabili risultano quelli in “via di sviluppo”, come l’Africa, delle regioni sub-sahariane, l’Asia meridionale (Bangladesh) e l’America Latina. La maggior parte di tali migrazioni si verificano in prevalenza verso i Paesi limitrofi, e non su frontiere internazionali, e seguono un flusso interno, definito “Sud-Sud”. Il Comitato ONU dei diritti umani, pronunciandosi a favore del caso di Ioane Teitiota, cittadino dell’atollo di Kiribasi che già nel 2013 aveva richiesto asilo, rigettato, alla Nuova Zelanda, perché la sua abitazione era stata minacciata dall’innalzamento del livello del mare, “ha riconosciuto che le persone che fuggono da catastrofi naturali e legate al clima hanno un valido motivo per chiedere la protezione internazionale nel quadro del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”. Si tratta della prima volta in cui la legislazione internazionale sui diritti internazionale impone ad uno Stato il divieto di rimpatriate i rifugiati. Col via libera al nuovo Decreto Sicurezza, approvato dal Parlamento lo scorso 18 dicembre, anche l’Italia, analogamente agli USA, si apre al riconoscimento dei “migranti ambientali o climatici” introducendo la protezione umanitaria in termini di “accoglienza e di integrazione, con un’attività di prima assistenza, che continuerà a svolgersi nei centri governativi e straordinari”, e che in seconda battuta si svolgerà su due piani “per coloro che richiedono la protezione internazionale, e per coloro che ne sono già titolari, con servizi aggiuntivi finalizzati all’integrazione”. Si tratta di un importante adeguamento rispetto alla regolamentazione ufficiale dello status di “rifugiato ambientale” a livello internazionale.