Tra Gran Bretagna e Unione europea, la competizione nel ‘dopo Brexit’ non finisce mai: Glasgow ne è l’ennesimo palcoscenico. Il governo di Sua Maestà, che organizza e gestisce l’evento, avviato con il traino del Vertice del G20 sotto presidenza italiana, vuole che la Cop26 sia un successo. E l’Ue ha in mano le chiavi del successo: gli impegni dell’Unione in quanto tale e dei suoi 27 Paesi possono, o meno, consentire di scendere alla soglia di riscaldamento globale presa come misura della riuscita, o del fallimento, della Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico, cioè un aumento della temperatura al massimo di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali.
Il presidente della conferenza Alok Sharm fissa l’asticella in modo preciso: le delegazioni devono ripartire da Glasgow a lavori conclusi avendo condiviso quel traguardo e con programmi credibili per raggiungerlo. Senza un impegno del genere, che ricalca le conclusioni del G20 e che va al di là degli Accordi di Parigi del 2015, la Cop26 sarebbe un flop, “il trionfo del blablabla”, come dicono Greta Thunberg e i giovani che pungolano i governi a decisioni coraggiose.
Al buon esito della conferenza scozzese, tiene in particolare il premier britannico Boris Johnson, che investe tutto il suo prestigio in un successo diplomatico sul fronte ambientale, per dimostrare che la Gran Bretagna, libera dai lacci dell’Ue, sa forgiare un accordo storico a livello planetario e sventare soluzioni al ribasso.
Ironia della sorte, per farlo Johnson ha bisogno dell’Ue: Cina, Russia, India, che con gli Stati Uniti compongono la short list dei grandi inquinatori, sono sulla difensiva, frenano, invece di spingere; gli Usa di Joe Biden, rispetto a quelli di Donald Trump, hanno almeno il merito di esserci, ma non sono ancora leader nei processi di de-carbonizzazione e nel ricorso alle fonti alternative, anche se mandano a Glasgow una parata di stelle, il presidente, l’ex presidente Barack Obama, l’astro nuovo della sinistra democratica Alexandria Ocasio-Cortez e, naturalmente, l’inviato sul clima di Biden, John Kerry, convinto che si arriverà almeno a un’intesa un mercato mondiale delle emissioni.
L’esempio, però, lo dà la Vecchia Europa, pur con remore e prudenze, divisioni e contraddizioni. Con il 7% della popolazione mondiale e quasi un quarto della ricchezza mondiale, rappresenta solo l’8 per cento delle emissioni da effetto serra ed è avviata a ridurre ulteriormente la sua quota.
Tra gridi d’allarme di esperti, proteste di giovani, ‘fiere della vanità’ di politici e giochi diplomatici, la Cop26 ha vissuto le sue due settimane su due piani paralleli: da una parte, i programmi pubblici, su singoli aspetti della lotta contro il cambiamento climatico; dall’altra, i negoziati fra delegazioni.
Nella notte tra martedì e mercoledì, la presidenza ha diffuso la prima bozza del documento finale, sulla quale si sono innescate consultazioni con le capitali e su cui sono piovute critiche scontate: nessuno mai accetta la prima bozza; al massimo, la si giudica “una (buona) base di partenza”. C’è “il riconoscimento che limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi al 2100 richiede profonde e sostenute riduzioni delle emissioni globali di gas serra, compresa la riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica del 45% al 2030 rispetto al livello del 2010 e a zero nette intorno alla metà del secolo”.
Sharma, 54 anni, un politico britannico di origine indiana che per organizzare e presiedere la Cop26 ha lasciato il suo posto nel Governo Johnson, pur mantenendo il rango di ministro, non s’è fatto smuovere dalle critiche: “Ho chiesto ai negoziatori di fare presto”. E Johnson spronava delegazioni e governi “a un’azione ambiziosa nelle fasi finali” della Cop26.
Il ruolo dell’Ue e la partnership con l’Africa
Alberto Maiocchi, docente e ricercatore presso l’Università di Milano, analizza, per il Centro Studi sul Federalismo di Torino, il ruolo dell’Ue alla Cop26, ritiene che, per giocare un ruolo decisivo nella lotta contro il cambiamento climatico, l’Ue “deve sapere costruire un sistema di forti alleanze con i Paesi più vulnerabili, e in particolare con l’Africa”. Un recente volumetto curato dal CSF ha un titolo emblematico: Europe and Africa: a Shared Future. “In sostanza, la transizione ecologica, e in particolare il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, è possibile soltanto se – scrive Maiocchi – l’Unione saprà attuare i trasferimenti tecnologici e finanziari necessari a garantire lo sviluppo di nuove fonti di energia verde nei Paesi africani. Questa produzione di energia favorirà la promozione di un processo endogeno di sviluppo nel continente africano, nel quadro del processo di creazione di un mercato comune da rafforzare con un’Unione dei pagamenti simile a quella fatta in Europa ai tempi del Piano Marshall”.
Maiocchi è sicuro che “su questo terreno l’Europa potrà dimostrare finalmente la capacità d’essere protagonista a livello mondiale”. Un significato importante avrà il trasferimento ai Paesi africani della quota europea di Special Drawing Right, i diritti di prelievo speciali, che l’Fmi distribuirà com’è stato convenuto il 1° ottobre ad Addis Abeba dai ministri delle Finanze africani, incontrando la direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva. L’Africa chiede anche l’introduzione di un prezzo del carbone globale. “E’ una strategia complessa – osserva Maiocchi -, che richiederà un grande impegno di capitale politico da parte dell’Unione”: la Cop26 può contribuire ad alimentare l’ottimismo e la determinazioni necessari a salvare il pianeta, migliorando nel contempo le prospettive di sviluppo delle aree meno favorite.