Se tutti i contrasti del Medio Oriente si risolvessero come la partita tra Usa e Iran a Qatar 2022, martedì sera, uno scontro maschio, ma fondamentalmente corretto, e soprattutto incruento, il Mondo sarebbe un posto più sicuro. Invece, il Medio Oriente è serbatoio inesauribile di tensioni e violenze, incrocio di ambizioni e rivalità etniche, religiose, di influenza, con le Grandi Potenze che spalleggiano i loro sodali, per quanto impresentabili possano essere: gli Stati Uniti l’Arabia saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman, alias Mbs, considerato dall’Intelligence il mandante dell’omicidio Khashoggi; la Russia la Siria di Bashar al-Assad, che reprime il suo popolo; la Cina l’Iran che annega nel sangue le proteste delle donne. L’Europa è assente: la guerra in Ucraina catalizza, nell’incubo di un inverno senza energia per scaldarsi e per produrre, le attenzioni dei 27.
Il ritorno al potere imminente in Israele di Benjamin Netanyahu, vincitore col Likud delle elezioni del primo novembre e attualmente alla prese con la formazione di una maggioranza di destra, incendia la Regione: il terrorismo torna a colpire a Gerusalemme; la ritorsione israeliana fa vittime nei Territori; la Russia rinnova l’invito alla Turchia perché si astenga da un’offensiva di terra contro i curdi in Siria, avvertendo che ciò potrebbe portare a “un’escalation nell’intero Medio Oriente”; e Usa e Israele conducono, per tre giorni, un’esercitazione aerea su ampia scala, che simula attacchi contro il programma nucleare iraniano. Le manovre, messe a punto dai rispettivi Stati Maggiori, si svolgono sul Mediterraneo per tre giorni e includono rifornimenti in volo.
Gli attentati che, mercoledì scorso, a Gerusalemme hanno ucciso un ebreo di 50 anni immigrato dall’Etiopia e uno studente canadese di 16 anni di un collegio rabbinico, e hanno fatto una trentina di feriti, vengono letti come un avvertimento palestinese al nuovo (ennesimo) governo Netanyahu, anche se non sono stati rivendicati.
Le due esplosioni, nei pressi di stazioni dell’autobus, sono pure avvenute, forse inconsapevolmente, nell’imminenza del decimo anniversario del voto con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 2012, decretò a larga maggioranza (138 voti a favore, 9 contro e 41 astensioni) l’ammissione della Palestina come Stato osservatore.
Il voto di dieci anni fa, in pieno clima di fermento delle Primavere arabe in Medio Oriente, pareva avvicinare, o almeno andare verso, l’opzione dei due Stati per risolvere la crisi palestinese: scelta più volte affermata, ma mai attuata. E, invece, dieci anni dopo, quella soluzione non è affatto imminente, anche se gli Stati Uniti siano tornati a dirsene fautori, dopo il distacco dalla formula dell’Amministrazione Trump.
Anche di qui, dalla frustrazione di un popolo che non vede mai realizzate le proprie aspirazioni, rispettati i propri diritti e risolti i propri problemi, nascono sussulti di violenza e ingiustificabili gesti criminali. All’Angelus, domenica, Papa Francesco ha detto: “Seguo con preoccupazione l’aumento della violenza e degli scontri che da mesi avvengono nello Stato di Palestina e in quello di Israele” – si noti: Stato di Palestina -. “Mercoledì, due vili attentati hanno ferito tante persone e ucciso un uomo e un un ragazzo a Gerusalemme… Lo stesso giorno, durante scontri a Nablus, è morto un ragazzo palestinese… La violenza uccide il futuro, spezzando la vita dei più giovani e indebolendo le speranze di pace”.
La spirale di violenza non s’è arrestata a Gerusalemme e a Nablus. Il premier dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Muhammad Shtayyeh ha definito “un crimine atroce” l’uccisione a Hebron di due fratelli palestinesi in scontri con l’esercito israeliano. “Un’ escalation – ha aggiunto Shtayyeh, citato dalla Wafa – che porta il presagio di grandi pericoli … Chiediamo ai Paesi del mondo di intervenire con urgenza per frenare e fermare la macchina per uccidere israeliana”.
La polizia palestinese sta ancora cercando gli autori degli attentati, attuati – a suo dire – con ordigni “ad alta tecnologia”, zeppi di chiodi, viti e biglie, attivati da remoto con cellulari: un’azione “come non si vedeva dai tempi della Seconda Intifada”. Tecnologia e modalità sembrano escludere l’opera di un ‘lupo solitario’, ma induce piuttosto a pensare a gruppi ben organizzati ed addestrati. Secondo Massimo Lomonaco, corrispondente dell’ANSA da Israele, il “salto di qualità omicida” spiazza l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, ma viene invece salutato da Jihad islamica e Hamas come una risposta alla asserita “profanazione dei luoghi santi islamici” compiuta da due esponenti della ultra destra israeliana.
L’impatto del voto all’ONU del 29 novembre 2012
In realtà, come notava in quei giorni il professor Natalino Ronzitti su AffarInternazionali.it, il voto del 29 novembre 2012 era solo un upgrading, poiché la Palestina già aveva fin dal 1974 lo statuto d’osservatore in quanto movimento di liberazione nazionale, prima come Olp (cioè Organizzazione per la liberazione della Palestina) e poi, dal 1988, con il nome di Palestina.
La soluzione dei due Stati è un’idea che, con varie varianti, risale a quasi un secolo fa, agli Anni 30, e che dovrebbe risolvere, una volta per tutte, il conflitto israelo-palestinese: si tratta di creare due Stati separati, ciascuno sicuro all’interno delle proprie frontiere, uno ebraico e l’altro palestinese, rispettivamente Israele e la Palestina; gli arabi residenti in CisGiordania e nella striscia di Gaza sarebbero cittadini palestinesi; gli arabi residenti in Israele potrebbero scegliere quale cittadinanza avere. Dettagli d’una soluzione del genere furono lungamente discussi nel 2007 ad Annapolis, capitale del Maryland.
Con il voto del 2012, spiegava Ronzitti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite non aveva fatto altro che sostituire Olp con Palestina, senza però riconoscere alla Palestina la qualità statuale, nonostante la Palestina, tramite il Consiglio nazionale palestinese, si fosse autoproclamata Stato fin dal 15 novembre 1988, con Gerusalemme capitale.
Non era la prima volta che uno Stato veniva ammesso come osservatore, anche se il riferimento, spesso fatto, alla Città del Vaticano è improprio: lo statuto di osservatore è effettivamente attribuito alla Santa Sede, della cui personalità internazionale nessuno dubita, ma che non è un ente statuale. Osservatori sono stati la Svizzera, prima dell’ammissione alle Nazioni Unite, e la stessa Italia fino al 1955. Uno Stato osservatore può intervenire, ma non vota né gode dell’elettorato passivo e ha varie altre limitazioni.
Il 23 settembre 2011 la Palestina aveva fatto domanda d’ammissione all’Onu. Perché sia accettata, occorre innanzitutto essere uno Stato – qualifica contestata dagli Stati Uniti, membro permanente con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza -; e ci vuole poi il consenso dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza (CdS).
La domanda di ammissione venne subito bloccata, poiché nel Comitato sulle ammissioni del CdS solo sei Stati si espressero a favore. Miglior esito ebbe la domanda di ammissione all’Unesco, di cui la Palestina divenne membro il 23 novembre 2011, a larga maggioranza, sempre con l’opposizione degli Stati Uniti, che di conseguenza bloccarono il versamento di fondi all’agenzia dell’Onu con cui hanno costantemente avuto – e hanno – un rapporto controverso..
In sé, l’ammissione in qualità di Stato osservatore in seno all’Assemblea generale poteva non avere significative ricadute politiche, positive o negative, per la soluzione del conflitto israelo-palestinese; e, in effetti, non ne ha avute. Le speranze allora suscitate si sono rivelate illusorie, nonostante l’evolvere del contesto regionale – dalle Primavere arabe all’emergere del sedicente Stato islamico e alla sua sconfitta, dal riavvicinamento di Israele ad alcuni Paesi sunniti al persistere delle tensioni con l’Iran sciita – e di quello internazionale, con gli scossoni provocati dalla presidenza Trump, che, in sintonia con Netanyahu, spostò l’ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e sponsorizzò gli ‘Accordi di Abramo’ conclusi tra Israele e alcuni Stati arabi, essenzialmente sunniti.
Adesso, il ritorno al potere in Israele di Netanyahu, che della soluzione dei due Stati non è mai stato un fautore, e che non ha lo stesso rapporto di vicinanza con l’Amministrazione Biden, non lascia presagire progressi a breve termine. Nè il dossier pare prioritario per gli Usa o per l’Ue, tanto meno per altri grandi attori sulla scena mondiale.
Una vittoria di Pirro
Di vittoria di Pirro, aveva parlato già allora Roberto Aliboni, specialista di Medio Oriente dello IAI, l’Istituto Affari Internazionali: il voto dell’Onu era limitato nel suo significato politico, specialmente “nella percezione degli elettori palestinesi, che sin dall’inizio avevano trovato la mossa piuttosto inutile.”
La decisione del governo di Ramallah di acquisire una posizione più legittimante nell’Onu fu presa per significare che il quadro degli accordi di Oslo del ’93/’95 era ormai finito. E che, dunque, invece di continuare a cercare inutilmente la pace in collaborazione con Israele, Ramallah cambiava quadro e partner: “Dal quadro di Oslo e dal patrocinio occidentale a quello più vasto dell’Onu e al patrocinio planetario”.
Tuttavia, come questo cambiamento di quadro rafforzasse il presidente palestinese Abu Mazen e lo avvicinasse al conseguimento dei suoi obiettivi non era davvero chiaro, mentre le Primavere arabe rafforzavano Hamas, cioè la componente palestinese rivale. E i cittadini palestinesi furono soddisfatti del successo all’Onu, ma continuarono a pensare che quel voto aveva poco a che fare con il traguardo dell’autodeterminazione (che, in effetti, non hanno ancora raggiunto).
Dieci anni sono passati. Il Medio Oriente e il conflitto israelo-palestinese hanno subito scossoni e sussulti; c’è stata l’ascesa e la sconfitta – almeno regionale – dell’Isis, il sedicente Stato islamico; molti attori sono mutati – tre, ad esempio, i presidenti Usa succedutisi -. Ma ci sono pure costanti: Netanyahu e Abu Mazen, protagonisti e antagonisti allora, sono ancora di fronte, al posto che occupavano allora; e gli europei, che non avevano una strategia mediorientale comune – nel voto all’Onu, andarono in ordine sparso -, non se la sono nel frattempo data; e la pace resta lontana, dietro pulsioni di violenza, giochi di potere e cortine d’ignavia.