Parlo di Donna è Innovazione con Simonetta Pattuglia, professoressa Aggregata di Advanced Marketing, di Marketing, Comunicazione e Media e di Strategic Marketing nei Corsi di Laurea magistrali Economia e Management e Business Administration alla Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata. In più coordina l’Indirizzo Marketing and Sales del Corso di laurea magistrale in lingua inglese (MSC) in Business Administration. È Direttrice del Master in Economia e Management della Comunicazione e dei Media, giunto alla XXI Edizione, e del Master in Marketing e Management dello Sport, XXII Edizione. E’ autrice di decine di pubblicazioni nazionali e internazionali. Di prossima pubblicazione: con S.Cherubini, Advanced Marketing, Wolters Kluwer, Febbraio 2024. Ha recentemente curato i contenuti della serie podcast “Generazione in ascolto”, Chora Media, open Spotify, partecipando e curando in particolare l’episodio “Cibo del futuro”, 11/2022, e l’episodio “Metaverso”, 1/2023.
Donna e trasformazione digitale, questa rivoluzione velocizzerà il raggiungimento della parità?
Dal punto di vista ideale – sensibilizzazione dei mondi culturali maggioritari, presa di coscienza dei top management aziendali nelle aree diciamo “evolute” del pianeta (qui il politically correctci può giocare brutti scherzi), norme sul riequilibro di genere e sull’inclusione, estensione degli obiettivi ESG a tutte le tematiche di una sostenibilità larga e omnicomprensiva – non vedo problemi di sorta. Se però passiamo all’analisi dei bias che sono presenti nelle elaborazioni digitali e negli automatismi dell’intelligenza artificiale al momento non possiamo immaginare sconvolgimenti di brevissimo termine nel senso di un riequilibrio veloce e diffuso, purtroppo. Se poi passiamo ancora all’analisi interstiziale dei dati di fondo sull’universo femminile e sulle patologie che lo affliggono dal punto di vista sociale – parlo di violenza morale, economica, fisica, tasso di femminicidi, ecc. – la situazione è ancor più fosca.
Pensa di poter rappresentare un “role model” per le giovani di oggi?
Se ragioniamo in termini relativi e rispetto alla generazione di appartenenza (la X, quella che va grosso modo dal 1965 al 1980, dopo seguono i cd. Millennials) direi di sì sia in termini di proiezione pubblica sia in termini di assetto “privato” della mia vita personale. Una vita molto normale di donna che lavora attivamente senza risparmiarsi, con un lavoro di grande responsabilità sociale, con un figlio, un marito, genitori anziani, hobby che riesce (più o meno!) a mantenere e una vita privata e pubblica di qualche consistenza. E’ altrettanto ovvio che oggi i modelli di ruolo e comportamento più evidenti e diffusi sono purtroppo quelli legati maggiormente ad una visibilità mediatica e social e più connessi a professionalità “mordi e fuggi”. Professionalità facilmente veicolate dai nuovi media e comunicate come più dinamiche, veloci, produttive di “effetti wow” a breve, meno “faticose” e meno fondate su studi approfonditi e dedizione indefessa.
Cosa consiglia ad una giovane che vuole emergere nel suo ambiente?
Studio e preparazione, soft skills e…passione. Quella che siamo soliti chiamare “luce negli occhi” che vuol dire essere determinate, appassionate, capaci di profondere energia e di dedicarsi trasparentemente e con fiducia alle proprie attività e ai propri stakeholder, dagli studenti e dalle studentesse, ai propri colleghi e colleghe!
Per arrivare alla parità è più importante la politica di genere, l’educazione o l’informazione?
Qualche anno fa mi sentivo spesso ripetere che le “quote rose” erano superate dai tempi e che le donne, se avessero voluto, avrebbero potuto fare quanto desiderato e ambito. Oggi invece con qualche anno in più, qualche esperienza in più, e forse qualche stanchezza in più, penso che perlomeno nelle società tradizionali come quella italiana siano ancora necessarie le “politiche di genere” certamente da intendere in senso più estensivo a ricomprendere altri gruppi spesso tenuti ai margini. Penso alla sensibilità LGBTQIA+, penso agli individui con disabilità, penso alle istanze multi-culturaliste e di integrazione fra popoli diversi. E credo che le tre grandi crisi permanenti degli ultimi tre anni, quella da Covid-19, quella bellica e quella climatica, abbiano accelerato questo processo. Per arrivare dunque alla parità sono necessari ancora grandi sforzi politici sul riequilibrio di genere; un’informazione particolarmente formata ad eliminare i bias inconsapevoli che tutti i giorni producono titoli e contenuti delle notizie sui media meno avveduti (e anche delle grandi testate, purtroppo, di quelle che una volta “guidavano” l’evoluzione sociale e culturale); una educazione familiare, scolastica, universitaria, molto attenta a non dare per scontate queste tematiche e pronte invece ad investire costantemente nella loro trattazione e interiorizzazione nella giusta prospettiva.
La leadership al femminile è ancora un’utopia …
Purtroppo se si leggono i numeri assoluti e relativi rispetto a carriere, stipendi medi, posizioni apicali, posizioni di middle management, tasso di abbandono scolastico, tasso di resignation, impossibilità nella conciliazioni dei ruoli, ecc. ecc. ecc., sì. Una delle tante premesse, su cui mi trovo spesso a riflettere, è che le ragazze e le ragazzine attuali – malgrado il gran parlare – non sono consapevoli della nuova «questione femminile». E intendo soprattutto le ragazze tardo Millennials e GenZ. Che poi sono quelle che quotidianamente frequento per la mia professione, sia le universitarie sia le ragazze delle superiori. I dati statistici del mercato del lavoro, comparsi in una Ricerca EIGE Gender Equality Index 2019, pubblicata nel settembre 2021, ci dicono infatti che le italiane sono le ultime in Europa per la parità sul lavoro. Non sono libere di lavorare, lo sono solo “a parole”: guadagnano difatti meno di 1.500 euro. Spesso sono costrette a lasciare il lavoro per mancanza di servizi e facilitazioni fiscali. Il 52% di loro non lavora. Le italiane inoltre nel privato guadagnano il 14% in meno dei colleghi maschi, in settori a retribuzione più bassa; svolgono un part time, non volontario, oltre 60% delle donne; e comunque guadagnano meno del 30%, a parità di orario, titoli studio, seniority che vuol dire età ed esperienza. Nell’evoluzione di carriera, l’82% dei dirigenti sono uomini, il 70% delle donne lavora gratuitamente a casa; le donne lavorano in media un’ora e mezza più degli uomini al giorno. E queste non sono bla bla ma “dati” economici e sociali.
La presenza di una donna ai vertici delle aziende può avere un impatto positivo sul fatturato?
Sono stati scritti molti articoli sulla base di ricerche anche internazionali su questa correlazione positiva. E’ intervenuto, ad amplissimo raggio, un Rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (2019) che mostra come la diversità di genere, soprattutto di alto livello, porti risultati positivi nell’impresa e determini talent attraction. Indagando 13.000 imprese in 70 paesi, si sottolinea come il 57% degli intervistati dichiari incrementi di profitto fra il 5 e il 20% con sensibili miglioramenti in termini di creatività, innovazione e apertura culturale e contemporanei effetti importanti sulla reputazione. Circa il 40% delle aziende ha addirittura rilevato un interessante impatto a favore del ruolo del cliente e di una migliore comprensione delle sue istanze e bisogni. A livello nazionale, poi, si dichiara nel Rapporto, nell’ampio periodo 1991-2017, all’aumentare dell’occupazione femminile ha fatto riscontro una crescita del PIL. La parità di genere si staglia, dunque, come uno dei fattori fondamentali per la crescita delle imprese più che come una mera soluzione di un problema di risorse umane.
La storia ci insegna che le donne che hanno lottato per la parità di genere hanno avuto risultati concreti, garantendo alle nuove generazioni più libertà di espressione e possibilità di realizzare i propri sogni. Ha in mente esempi di donne che l’hanno ispirata?
Domanda tosta! Quando ero giovanetta – età fondamentale della formazione di un’idea di identità pubblica – nei tardi anni ‘80, era considerata un mito la figura di Marisa Bellisario, una delle prime donne italiane top manager di grande azienda (Olivetti, Italtel) che ci sembrava davvero la concretizzazione più evidente del mutamento in atto e del trend che noi stesse volevamo incarnare. Dunque una donna che aveva raggiunto livelli apicali in azienda in quanto il mondo dell’impresa sembrava quello rimasto maggiormente indietro. Nell’accademia, nella politica, nell’associazionismo, nella giustizia e nell’avvocatura, nella scienza, avevamo già visto figure importanti e interessanti come role model. Nelle imprese italiane, si parlava ancora pochissimo delle donne manager meno che mai in posizioni top. Le mie letture al femminile hanno fatto forse addirittura di più per la mia educazione e per la mia acculturazione alle problematiche di genere: Betty Friedan, Natalia Ginzburg, Simone de Beauvoir, fra tutte. Ancora prima – da bambina – addirittura l’ottocentesca Louise May Alcott di “Piccole donne” mi avrebbe colpito a vita con il suo splendido personaggio di Jo(sephine). Jo, la sorella March impegnata e ribelle, artista e letterata, tutta tesa alla sua carriera di scrittrice che sposerà da grande il professore tedesco squattrinato e molto più adulto di lei, a fronte della facile scelta dell’amico di infanzia, bello e posizionato, rifiutando pertanto quella “mistica della femminilità” (marito – figli – casa) che proprio la Friedan porrà sotto accusa. Molto fece anche la lettura costante de L’Espresso che trovavo in casa (mio papà era un dipendente di quella testata) che fra i settimanali del periodo spiccava per articoli, inchieste, sondaggi dedicati all’evoluzione delle società e al confronto fra le generazioni e i sessi. Comunque, in realtà, non ho un vero “mito” femminile. Mi piace il modello di donna volitiva, di donna che dà forma a se stessa, alla sua vita e al suo lavoro. Mi piace insomma una donna che percepisco non succube di fatti o di persone. Ora è chiaro che nella vita ci si possa trovare in una posizione sfavorevole: però mi piace sempre vedere un certo tipo di reattività. Lo dico trasparentemente: non mi sento affine al vittimismo o a qualcuno che preferisce questa via come espressione di sé. Preferisco, insomma, le battagliere, le coraggiose, quelle che hanno la forza morale per dire come la pensano e per agire. E poi mi piace un tipo di donna che si adatta, penso sempre alla Barbie. Questo brand iconico di una bambola che nasce nel 1954 come “modello”, già da allora ideata con un “certo pensiero” sulla donna: Ken è sempre stato accessorio rispetto alla Barbie! E da subito la Barbie da sola possedeva un’auto, una villa con ascensore, motociclette e strumenti di ogni genere! Era autonoma e autodeterminata! Ed è una figura che si evolve passo passo con l’evoluzione di tempi: adesso è stata prodotta finalmente – ispirata a Samantha Cristoforetti – la Barbie astronauta, l’atleta, la scienziata, e addirittura una linea di collezionabili dedicata alle “grandi donne” che hanno fatto la storia americana e mondiale. Tutti i role model della contemporaneità.
Questa adattabilità, questa capacità che le donne hanno di adattarsi ai tempi e spesso di precorrerli, è chiaramente appartenente a un modello di donna che mi piace molto e che propongo costantemente alle giovani generazioni.