Guerre

Non c’è pace ai confini di Israele; e neppure dentro il Paese. A Sud, Israele continua a fare la guerra nella Striscia di Gaza. A Nord, tiene, pur con ripetute violazioni, soprattutto israeliane, la tregua con Hezbollah, mentre l’esercito israeliano approfitta del caos in Siria, dove il cambio di regime innesca incertezza e confusione, sbandamento e debolezza, per annientare la marina siriana nelle sue basi e per distruggere l’80% di depositi e apparati militari delle forze regolari e delle milizie filo-iraniane: obiettivo, creare una zona demilitarizzata al confine israelo-siriano, come c’è già con il Libano, e occupare aree del Golan abbandonate dall’esercito siriano, fino a 20km da Damasco, senza tenere conto del fatto che l’occupazione israeliana delle alture del Golan è illegittima, a giudizio dell’Onu.

Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non c’è pace neppure a casa. Martedì, il premier è stato lungamente chiamato a deporre nel processo per corruzione in atto contro di lui: l’accusa sostiene che, in tre diverse occasioni, abbia compiuto frodi, violato la fiducia e accettato bustarelle; lui nega tutti gli addebiti. E’ la prima volta che un premier israeliano è colpito da accuse penali: secondo gli inquirenti, ha sfruttato la sua posizione per ottenere champagne e sigari e denaro. “Questa è una bugia totale – si difende l’imputato –: lavoro 17, 18 ore al giorno, tutti coloro che mi conoscono lo sanno”. E rivendica, sul piano geo-politico, il merito di “avere ridisegnato la mappa del Medio Oriente” a favore di Israele.

I paradossi israeliani non sono gli unici, nel Medio Oriente che aggiunge crisi a crisi. Al telefono con la premier italiana Giorgia Meloni, il presidente turco Racep Tayyip Erdogan, uscito vincitore dalla vicenda siriana, lamenta che Israele agisce nella Regione con “mentalità da occupazione”. Peccato che le forze turche siano accampate anch’esse nel Nord della Siria, occupando in funzione anti-curdi una porzione del territorio al confine con la Turchia. Quanto all’Iran, uno degli sconfitti della vicenda siriana, “cerca di riannodare le fila” dopo “la scossa tellurica” nel Medio Oriente, scrive il New York Times, nonostante l’indebolimento generalizzato della sua presenza in tutta l’area, a partire dagli Hezbollah in Libano.

Tutto intorno, Iraq, Arabia Saudita, Qatar sono sul chi vive, per parare colpi – Baghdad – o cogliere occasioni d’aumentare la propria influenza – Riad e Doha -. A quello che succede a Gaza, nessuno bada più, nonostante le cronache restino tragiche: mercoledì mattina, un attacco israeliano ha ucciso almeno 26 palestinesi, fra cui sei bambini e un’intera famiglia di otto persone, quando un ordigno ha distrutto un edificio che ospitava rifugiati a Beit Lahiya, nel Nord della Striscia, vicino al confine con Israele. Lo riferiscono fonti sanitarie palestinesi.

C’è chi pensa che i recenti sommovimenti possano accelerare un’intesa sugli ostaggi tra Israele e Hamas: un centinaio, degli oltre 250 catturati il 7 ottobre 2023, nei raid terroristici palestinesi costati a vita a circa 12000 israeliani, non sono stati ancora restituiti alle famiglie e una cinquantina sarebbero ancora vivi. Ma pare che solo le famiglie ne facciano una priorità in questo momento.

Gli aspetti umanitari di questo intreccio di sanguinosi conflitti sembrano scivolati in secondo piano. Amnesty International chiede alla Corte Penale Internazionale di “aggiungere il genocidio all’elenco dei crimini di Israele su cui sta indagando”; e avverte gli Stati che continuano a dare armi a Israele che “stanno violando l’obbligo di prevenire il genocidio”.

L’Occidente segue gli sviluppi in Medio Oriente, interrogandosi sulla piega degli eventi, soprattutto su chi comanda a Damasco, dove Muhammad al Bashir, formalmente incaricato dagli ex – o tuttora – jihadisti di formare un governo di transizione, destinato a durare tre mesi, assicura: “Scioglieremo i servizi di sicurezza e aboliremo la legge anti-terrorismo”. Ai soldati dell’esercito regolare, oltre 4000 dei quali fuggiti in Iraq, è stata concessa l’amnistia.
Al Bashir è persona di fiducia dell‘’uomo forte’ del momento a Damasco, il leader dei ribelli Abu Mohammed al-Jolani. Erdogan lo spalleggia: “Ogni attacco alla libertà del popolo, alla stabilità della nuova amministrazione e all’integrità del territorio ci vedrà al fianco del popolo siriano”. Eppure, la Turchia ha finalità sue proprie: vuole fare rientrare i rifugiati, al ritmo di 20 mila persone al giorno, e tenere sotto tiro i curdi siriani, considerati “terroristi”.

Guerre: punto, le reazioni internazionali di fronte alla ‘nuova’ Siria
Ignominiosamente, l’Europa non sa fare di meglio che sospendere l’esame delle richieste di diritto di asilo di siriani: come se la Siria fosse diventata un Paese sicuro e non sia, piuttosto, un intreccio di conflitti fra ideologie, integralismi ed etnie. Il cattivo esempio lo dà l’Italia, ma molti altri Paesi sono ben contenti di accodarsi, in attesa che i 27 valutino e definiscano l’atteggiamento da tenere verso la ‘nuova’ Siria.

Per una volta, Donald Trump è il più cauto di tutti. Mentre l’Onu e l’Ue, il presidente Usa Joe Biden e i leader europei giudicano a priori positiva l’uscita di scena del dittatore siriano Bashar al Assad, Trump avverte che “gli Usa non dovrebbero farsi coinvolgere”. Poche ore prima che Damasco cadesse in mano ai ribelli, scriveva sul suo social Truth: “Questa non è la nostra battaglia… Lasciate che si svolga”, evocando il fallito impegno di Barack Obama a fare rispettare nel 2014 la linea rossa sull’uso delle armi chimiche da parte del regime siriano.

Nel testo di Trump, c’è anche un messaggio al presidente russo Vladimir Putin: la rapidità shock degli eventi in Siria è stata possibile perché la Russia, “impegnata in Ucraina, dove ha perso oltre 600 mila soldati, non è stata capace di proteggerla”. Poche ore dopo, Biden, invece, si esprimeva così: “Finalmente Assad è caduto. Per i siriani, è un’opportunità storica”; e sosteneva che il dittatore in fuga “deve essere portato in giustizia e punito”. Su posizioni analoghe, i maggiori leader europei, anche quelli che erano stati soci d’affari del presidente dimessosi (alias deposto).

Guerre: punto, l’Ucraina alla festa per la riapertura di Notre Dame
L’eccezionale rapidità della caduta del presidente siriano e le prospettive di analoga accelerazione del conflitto in Ucraina hanno fatto da contesto internazionale della visita a Parigi del presidente eletto Usa Donald Trump, in occasione della riapertura della cattedrale di Notre Dame dopo l’incendio del 2019.

Trump è stato l’attrazione del fine settimana parigino, protagonista più del padrone di casa, ancora in cerca di governo, Emmanuel Macron. All’Eliseo, prima della cerimonia di riapertura, c’è stato l’incontro a tre Macron, Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che rientra nel quadro dei tentativi europei di convincere il presidente eletto a mantenere il sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione russa.

Mentre Trump era a Parigi, l’Amministrazione Biden annunciava quasi un miliardo di ulteriori aiuti in armamenti a Kiev: la Casa Bianca sta cercando di spendere tutti i soldi già vistati dal Congresso prima del cambio della guardia. E, sul terreno, russi e ucraini cercano di consolidare le posizioni, in vista di un negoziato che appare ormai non solo inevitabile – lo è sempre stato -, ma anche imminente.

Trump, in un’intervista alla Nbc registrata prima di partire per Parigi, ma diffusa domenica, avverte che gli aiuti all’Ucraina potranno essere ridotti e minaccia di lasciare la Nato se gli alleati non saranno “giusti” con gli Usa, cioè non pagheranno di più, oltre che ribadire molti aspetti del suo programma, dall’imposizione di dazi alla ‘deportazione’ di milioni di migranti.

A livello nazionale, gli alleati europei degli Stati Uniti stanno già adeguandosi al cambio di tono: ‘Trump 2’ scuote e divide l’Ue, con le destre in sollucchero e i progressisti in ambasce. Ue e Nato, come organizzazioni, mantengono, per il momento, la linea del sostegno all’Ucraina. Il Consiglio dei Ministri dell’Ue dà via libera a 4,2 miliardi di dollari di aiuti, la seconda tranche del cosiddetto Strumento per l’Ucraina da 50 miliardi finanziato con i beni russi congelati e destinato a sostenere, nei prossimi quattro anni, le finanze e a migliorare il funzionamento della pubblica amministrazione ucraine; e il Parlamento europeo sollecita un maggiore sostegno militare all’Ucraina, tenuto conto del coinvolgimento nel conflitto di Cina e Corea del Nord.

Nel Consiglio atlantico, riunito a Bruxelles, la Nato promette a Kiev ulteriori aiuti, per rinforzarne la posizione in vista d’una trattativa. Annalena Baerbock, ministro degli Esteri tedesco, sprona i partner a spendere di più per la sicurezza comune. Zelensky apre a negoziati sulla restituzione delle regioni occupate, ma la richiesta di adesione alla Nato cade per ora nel vuoto; e lì, probabilmente, resterà.

Prove di dialogo tra l’Ucraina e il ‘Trump 2’ si sono già state a Washington la settimana scorsa, quando il capo dell’ufficio presidenziale di Kiev Andriy Yermak ha incontrato il team Trump, cioè l’inviato ad hoc Keith Kellogg e il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, presente anche il vice-presidente JD Vance.

Kellogg avrebbe espresso sostegno agli sforzi dell’Amministrazione Biden per inviare rapidamente armi in Ucraina, affermando che ciò darà a Trump una leva per negoziare con Mosca un accordo. Ma ha mostrato scarso interesse nell’offrire a Kiev l’adesione alla Nato, ritenuta invece da Zelensky una garanzia di sicurezza fondamentale contro future aggressioni. Yermak ha incontrato in Florida anche la futura capa dello staff della Casa Bianca Susie Wiles.

Articolo precedenteQuantum Ecology e Willow qubit rivoluzionario di Google
Articolo successivoSaverio Vero (Rai Pubblicità): “Necessario un sistema di misurazione dell’audience uguale per tutti”
Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.