di FRANCESCO PASSERINI
Non ho scelto unaforisma di McLuhan da commentare. Il che equivale a dire che non ne ho scelto nessuno. Oppure che li ho scelti tutti. Spiego: McLuhan, mi pare, ha scelto la forma dell’aforisma per farsi ascoltare. Un modo più elegante dell’alzare la voce. E perché mai avrebbe dovuto alzare la voce per farsi ascoltare? Perché stava dicendo qualcosa di nuovo, di inaudito. Certo, gli ascoltatori (compresi gli studiosi) non amano sentire cose nuove e in-audite. Il perché di questo atteggiamento ce lo spiega la scienza cognitiva, di cui McLuhan è stato, inconsapevolmente, un antesignano. Il nostro modo di conoscere (questa è una delle acquisizioni fondamentali della scienza cognitiva) è limitato dalla struttura di circuiti cerebrali che semplificano e, dunque, accelerano ma al tempo stesso vincolano le nostre percezioni.
McLuhan aveva intuito che ogni tecnologia dei media (mezzi di comunicazione) costituisce una protesi delle nostre capacità di percezione e che, allo stesso modo dei nostri circuiti cerebrali – come poi hanno scoperto gli scienziati cognitivi – queste protesi ci vincolano a determinate modalità di percezione del messaggio trasmesso. Questa intuizione è stata sintetizzata nel famoso aforisma “il medium è il messaggio”. Che, proprio perché sintetizzata in un aforisma paradossale, è diventata un messaggio famoso. Anche se famoso non vuol dire “capito”. Ma oggi non è forse chiaro a tutti che chiunque vada in televisione diventa famoso senza bisogno di dire nulla?
Il rischio che spesso corre chi anticipa troppo alcune visioni nuove o anche solo insolite e cerca il linguaggio per far capire che sta dicendo qualcosa di veramente nuovo, è quello di essere percepito come un “guru” le cui intuizioni vengono poi citate come dei mantra da ripetere a mo’ di giaculatorie miracolistiche anziché essere recepite come indicazioni per un cammino da seguire o, meglio, da proseguire.
Da questo nasce la mia resistenza a commentare un aforisma di McLuhan. Forse è meglio cercare di cogliere il suggestivo stimolo di Derrick de Kerckhove per farlo diventare una indicazione di metodo (che Derrick peraltro ha magistralmente seguito nella sua vita di studioso): alcune indicazioni di McLuhan sono ancora valide oggi. Benissimo: partiamo da lì e andiamo avanti. Altre sono state valide in passato e oggi potrebbero risultare superate. Benissimo: cerchiamo di capire, con il metodo storico e quello analogico, come, nella situazione di mezzo secolo fa, McLuhan sia riuscito a intuire il futuro che stava formandosi. Cerchiamo di capire lo straordinario metodo mentale che egli si è creato per vedere al di là dell’immediato futuro. Cioè cerchiamo di guardare al di sotto della superficie che ci appare quando utilizziamo i tradizionali e consueti modelli mentali. Per vedere se riusciamo anche noi ad essere “visionari concreti” come lo è stato lui. Evitiamo tuttavia di fare di McLuhan un profeta: significherebbe farne un monumento. Di bronzo o di pietra, in ogni caso significherebbe immobilizzarlo. E anche noi per contemplare un monumento ci dobbiamo fermare.
Oggi non abbiamo bisogno di monumenti di profeti da contemplare, ma sforzarci di essere, anche se solo un poco, profetici tutti, nel nostro quotidiano.
Concludo con un aforisma di Gustav Mahler che credo sarebbe piaciuto a McLuhan e che sintetizza il mio intervento: “Tradizione non è conservare le ceneri, ma tenere acceso il fuoco”.
In fondo non è quello che, strizzando l’occhio, ci vuole dire con quel delizioso cammeo in cui egli interpreta sé stesso nel film di Woody Allen “Io e Annie”?
Francesco Passerini Glazel
Presidente dell’Osservatorio TuttiMedia