Dal 1980 i progressi della tecnologia hanno condotto a un peggioramento della situazione politica. Gran parte dei problemi dei Paesi ricchi di risorse può essere ricondotta alle proprietà dei proventi degli idrocarburi
Quando si parla di politica, il petrolio pare godere di qualche strana proprietà. Di norma all’arricchimento di un paese corrisponde un miglioramento della sfera politica, ossia i governi diventano più efficienti e democratici, le donne beneficiano di maggiori opportunità economiche e di più diritti, e in generale è meno probabile che si verifichino insurrezioni violente. Tuttavia quando i paesi si arricchiscono vendendo petrolio, si assiste al fenomeno contrario: i governi sono sempre più in difficoltà e meno democratici, le donne hanno accesso a minori opportunità economiche e diritti politici e nel complesso scoppiano più guerre civili. Gli studiosi definiscono questo fenomeno come la “maledizione delle risorse” (o il paradosso dell’abbondanza), un’espressione che si riferisce a quei problemi che sovente affliggono le nazioni più ricche di risorse. D’altro canto questo termine ci appare fuorviante, giacché non si tratta tanto di una “maledizione delle risorse” quanto di una “maledizione dei minerali”, considerando che le altre risorse naturali, quali foreste, acqua e terreni fertili, non producono effetti dannosi. Tra i minerali è il petrolio, che costituisce oltre il 90 percento del commercio mondiale di minerali, a creare i problemi più gravi. Potremmo quindi affermare che la maledizione delle risorse è in larghissima misura una maledizione del petrolio.
Prima del 1980 non si erano evidenziati particolari segnali di una maledizione delle risorse, nel mondo in via di sviluppo, infatti, era probabile che gli stati ricchi di petrolio avessero governi autoritari e patissero guerre civili tanto quanto gli altri. Oggi, la probabilità che gli stati esportatori di petrolio siano retti da despoti è superiore del cinquanta percento e quella dello scoppio di una guerra civile è oltre il doppio di quanto registrato negli altri stati. Nei primi, inoltre, vige una maggiore segretezza, la volatilità finanziaria è superiore e alle donne sono concesse meno opportunità a livello politico ed economico. Dal 1980 l’avanzamento della geologia ha condotto a un peggioramento della politica. Non tutti gli stati con riserve petrolifere sono soggetti a questa maledizione, paesi come, ad esempio, Norvegia, Canada e Gran Bretagna che hanno entrate cospicue, economie diversificate e istituzioni democratiche solide, hanno estratto ingenti quantitativi di petrolio senza conseguenze sfavorevoli. La ricchezza derivante dal petrolio rappresenta un problema per i Paesi con redditi bassi o medi, non certo per quelli ricchi. Una condizione questa che, sfortunatamente, crea una sorta di “ironia del benessere da petrolio”, poiché i paesi con le necessità più urgenti sono anche quelli potenzialmente meno in grado di trarre beneficio dalle proprie risorse geologiche.
La geologia, però, non scrive il destino, neppure in tutti i Paesi in via di sviluppo. Nigeria e Messico hanno avviato la fase di transizione verso la democrazia, Messico e Angola vedono una vasta presenza femminile tanto nell’economia che nel governo, Ecuador e Kazakistan hanno evitato la guerra civile e ancora Oman e Malesia hanno registrato una crescita economica rapida, robusta e improntata all’equità. Tanto più capiremo perché il petrolio può rappresentare una maledizione, tanto meglio potremo proporre dei rimedi adeguati.
Qual è l’origine del problema?Gran parte dei problemi di natura politica ed economica dei paesi ricchi di petrolio può essere ricondotta alle singolari proprietà dei proventi petroliferi, che si caratterizzano per entità, fonte, stabilità e segretezza.
L’entità può essere considerevole: in media i governi dei Paesi produttori di petrolio hanno una dotazione finanziaria di quasi il cinquanta per cento superiore (come quota dell’economia nazionale) rispetto ai governi degli altri Paesi. Nei Paesi a basso reddito, la scoperta di giacimenti petroliferi può generare un’esplosione delle finanze pubbliche, ricordiamo solo che dal 2001 al 2009 la spesa pubblica è cresciuta del 600 percento in Azerbaijan e dell’800 percento in Guinea Equatoriale. Il volume crescente dei ricavi rende più agevole per i governi autoritari zittire il dissenso. Si tratta, anche, di un motivo per cui in molti paesi produttori si verificano insurrezioni violente, poiché le popolazioni che vivono in regioni ricche di giacimenti spesso vorrebbero beneficiare di una porzione maggiore dei ricavi raccolti dai governi centrali.
L’entità dei ricavi, tuttavia, non può giustificare da sola la maledizione del petrolio, se consideriamo che molti paesi europei pacifici e democratici hanno governi più ampi di quelli dei paesi produttori di petrolio, autocratici e piagati dai conflitti interni. Conta anche la fonte dei ricavi. I governi che vivono sul petrolio non sono finanziati dalle imposte versate dai cittadini, ma dalla vendita di attività pubbliche, ovvero della stessa ricchezza legata al petrolio. Una considerazione che contribuisce a spiegare perché molti paesi produttori di petrolio siano poco democratici, giacché quando i governi sono finanziati dai prelievi fiscali sono più vincolati dai propri cittadini, mentre quando sono finanziati dal petrolio sono meno soggetti alla pressione pubblica.
Altri problemi possono essere ricondotti alla stabilità, o diremmo meglio all’instabilità, dei ricavi dal petrolio. La volatilità delle quotazioni mondiali del petrolio e l’aumento e diminuzione delle riserve nazionali possono produrre oscillazioni considerevoli delle finanze pubbliche. Questa instabilità finanziaria pone in capo ai governi compiti che spesso non sono in grado di gestire e può spiegare, almeno parzialmente, perché la ricchezza legata alle risorse venga dilapidata. L’instabilità delle entrate aggrava i conflitti regionali, rendendo più ardua una composizione delle divergenze tra Stato e ribelli.
In ultimo, la segretezza delle riserve petrolifere amplifica i problemi. I governi spesso si alleano con le società petrolifere internazionali per nascondere le transazioni e utilizzano le compagnie petrolifere nazionali per celare ricavi e spese. Con Saddam Hussein alla presidenza in Iraq oltre metà delle spese del suo governo erano incanalate attraverso la compagnia petrolifera di bandiera, la Iraqi National Oil Company, il cui budget era coperto da segreto. E in altri Paesi prevalgono prassi simili. La segretezza è anche uno dei motivi per cui spesso i ricavi del petrolio si perdono nella corruzione, per cui i dittatori sostenuti dal petrolio restano al potere, nascondendo le prove della propria avidità e incompetenza, e per cui gli insorti non vogliono deporre le armi, vista la sfiducia che nutrono nell’offerta del proprio governo di suddividere i proventi del petrolio in maniera più equa.
Il petrolio ha altre caratteristiche problematiche, poiché il processo di estrazione di solito crea pochi benefici diretti a fronte di molteplici problemi sociali e ambientali per le comunità interessate; le strutture petrolifere e del gas presentano costi sommersi ingenti, il che le rende vulnerabili alle estorsioni, mentre la produzione su larga scala di petrolio può influire sui tassi di cambio di un Paese, riducendo il peso del settore manifatturiero e agricolo e, conseguentemente, cancellando opportunità economiche per le donne. Tutto ciò ci offre una visione più chiara degli effetti paradossali della ricchezza derivante dal petrolio su cui intendo concentrarmi nei prossimi paragrafi.
Il fattore politico principale che riguarda il petrolio, e la ragione per cui causa così tanti guai nei paesi in via di sviluppo, resta il fatto che i proventi generati in favore dei governi sono insolitamente elevati, non sono connessi alle imposte, variano imprevedibilmente e possono facilmente essere occultati.
La nascita della maledizione. I proventi del petrolio non hanno sempre avuto le caratteristiche illustrate in precedenza e la ricchezza che crea non ha sempre rappresentato una maledizione. Fino agli anni Settanta, i paesi produttori di petrolio erano simili al resto del mondo, la probabilità che fossero guidati da dittatori era la stessa, così come la frequenza delle guerre civili e l’offerta di opportunità all’universo femminile era più o meno in linea con le altre nazioni, senza dimenticare che i loro tassi di crescita erano stabili e ben al di sopra della media globale. Dopo gli anni ’70 tutto è cambiato.
Forse il motivo fondamentale di questo cambiamento è da ricercarsi nell’ondata di nazionalizzazioni che ha percorso il mondo in via di sviluppo in quel decennio. L’architetto della nazionalizzazione in Iraq, Saddam Hussein, che a quel tempo era Sottosegretario generale del Consiglio del comando rivoluzionario, ha conosciuto fama e popolarità. L’espropriazione dei beni delle compagnie petrolifere estere in Messico che ha avuto luogo nel 1938, ben prima che in altri paesi, è ancora commemorata come una festività nazionale.
In qualche misura, la nazionalizzazione è stata un passo enorme per i Paesi produttori di petrolio, che hanno assunto maggiore controllo sui propri asset, iniziando a catturare una percentuale più alta dei profitti del settore; negli anni Settanta questi stessi Paesi sono riusciti ad aumentare le quotazioni su livelli record, causando un trasferimento di ricchezza senza precedenti dagli stati importatori di petrolio a quelli esportatori.
Questi eventi hanno trasformato le finanze degli stati produttori di petrolio, con l’entità delle entrate pubbliche aumentata in maniera esponenziale, grazie sia alla nazionalizzazione che al rialzo dei prezzi; invece di addebitare imposte e royalty alle società estere, i governi potevano finanziarsi vendendo il petrolio tramite le proprie compagnie nazionali, un elemento che ha contribuito all’occultamento dei ricavi. Intanto i prezzi del petrolio, e conseguentemente le finanze statali, hanno iniziato a fluttuare in maniera imprevedibile.
La rivoluzione sui mercati dell’energia ha rafforzato l’influenza dei paesi ricchi di petrolio più di quanto avrebbero mai potuto immaginare. Ma per i cittadini, il risultato è stato, spesso, disastroso, in quanto il potere che una volta si concentrava nelle mani delle società estere è passato in quelle dei governanti, rendendo più facile soffocare il dissenso e le pressioni democratiche. Le minoranze etniche nelle regioni produttrici di petrolio hanno imbracciato le armi per conquistare una fetta dei proventi e, in diversi stati, l’aumento dei ricavi ha generato nuova occupazione, ma solo per gli uomini. Dopo aver beneficiato della fiorente crescita economica negli anni Settanta, i cittadini hanno visto i guadagni svanire dopo il crollo dei prezzi nel decennio successivo.
La frontiera del petrolio. Secondo l’Energy Information Administration statunitense, nei prossimi venticinque anni la domanda globale di petrolio e di altri combustibili liquidi aumenterà presumibilmente del 28 percento, mentre la domanda di gas naturale segnerà un incremento di circa il 44 percento. Per rispondere a queste richieste, le società sono sempre più impegnate in campagne di esplorazione ed estrazione nei Paesi a basso reddito.
Storicamente il petrolio era stato scoperto in paesi già agiati. Ma dall’inizio della volata delle quotazioni, attorno al 1999, si è assistito a un cambiamento, con il progressivo spostamento della frontiera del petrolio verso i paesi più poveri. Grazie all’ascesa del prezzo del petrolio, le compagnie internazionali hanno riscontrato che i rischi legati alle attività in nazioni povere, lontane e spesso mal governate erano più che controbilanciati dai vantaggi della scoperta di nuove riserve. Dal 2004 Belize, Brasile, Ciad, Timor Est, Mauritania e Mozambico sono diventati esportatori di petrolio e gas. Nel prossimo futuro almeno 15 nuovi paesi, tutti relativamente poveri e per la maggioranza africani, dovrebbero entrare in questa lista. Nei prossimi decenni la maggior parte delle nuove forniture mondiali di idrocarburi arriverà dalle nazioni in via di sviluppo.
Il che significa che un flusso di nuovi proventi inizia a raggiungere alcune delle zone più povere del mondo e, se non fosse per la maledizione delle risorse, questa sarebbe un’ottima notizia, un’opportunità storica assolutamente unica per sfuggire alla povertà. Eppure i paesi a basso reddito che hanno più bisogno di fondi sono anche quelli che più probabilmente cadranno vittime della maledizione delle risorse: se non si farà qualcosa, le conseguenze colpiranno e non aiuteranno la gente che abita sulla frontiera del petrolio.
Le possibili soluzioni
Fortunatamente ci sono molte soluzioni per combattere la maledizione del petrolio, in primo luogo cambiando le qualità dei ricavi legati all’oro nero. Non esiste una soluzione univoca applicabile a tutti i Paesi, ma nel mio libro “The Oil Curse” (Princeton University Press 2012) descrivo diverse strategie per modificare l’entità, la fonte, la stabilità e la segretezza dei proventi del petrolio. I Paesi possono migliorare la gestione di entità e fonte dei ricavi, ad esempio, creando ricchezza dai minerali più lentamente, offrendo ai cittadini un “dividendo” monetario regolare attingendo ai proventi sul petrolio (come già avviene in Alaska), usando contratti di scambio o privatizzando in parte le compagnie petrolifere nazionali (come accaduto in Brasile). Per migliorare la stabilità dei ricavi si può ricorrere ai fondi tradizionali di stabilizzazione o ancora meglio a prestiti denominati in petrolio.
Esiste, inoltre, un rimedio sempre efficace: una maggiore trasparenza nelle modalità di riscossione, gestione e utilizzo dei proventi del petrolio da parte dei governi. Questa maggiore trasparenza potrebbe spingerli ad assumersi appieno la responsabilità nei confronti della popolazione, ridurre i conflitti violenti e mitigare le perdite economiche dovute alla corruzione. Anche le riforme all’insegna della trasparenza nei paesi importatori di petrolio, la cui vorace domanda di combustibili fossili è alla base della maledizione delle risorse, potrebbero avere effetti evidenti.
Le riforme sono più urgenti nei paesi all’apice del boom petrolifero. A distanza di pochi mesi vengono scoperti nuovi giacimenti petroliferi e di gas in Africa, America Latina, Medio Oriente o Asia. Molti si trovano in territori poveri, non democratici e poco attrezzati per gestire flussi di proventi consistenti. La maledizione del petrolio ha avuto un inizio, infatti, prima delle nazionalizzazioni che hanno sconvolto il settore negli anni Settanta non esisteva. Tutto ciò significa che potrebbe avere anche una fine e che gli abitanti dei paesi in via di sviluppo più ricchi di petrolio hanno la possibilità di sfuggirle, sfruttando le ricchezze del sottosuolo per promuovere uno sviluppo equo.
di Michael L. Ross