“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono.” Una intervista radiofonica a Miguel Benasayag mi ha richiamato alla mente questa celebre riflessione di Alessandro Baricco in “Novecento” e anche io mi sono chiesto: quando, di preciso, il futuro ha cambiato segno e da promessa è diventato minaccia?
Quando è successo che quello spazio delle possibilità, che von Foerster ci esortava ad ampliare ogni giorno, è cresciuto in maniera così ipertrofica da incombere sulla nostra stessa sopravvivenza, come individui e come specie?
E davvero tutto è avvenuto in silenzio, senza che ce ne accorgessimo, senza quel percorso di crisi che annuncia la catastrofe?
Di certo, quando è successo, i primi segnali di crisi hanno riguardato l’efficienza e
l’efficacia della nostra creatività combinatoria, quella grazie alla quale troviamo la
soluzione ad un problema (anche e soprattutto di sopravvivenza) attraverso una
procedura di trial and error. Ma lo spazio delle possibilità, ormai virtuale, digitale,
de-materializzato, cresce a dismisura. Con buona pace di Guglielmo da Occam si
contano più di quaranta metaversi disponibili e questo ci pone immediatamente di
fronte alla disarmante inefficacia di un simile approccio. E se, attraverso i nostri
gemelli digitali, possiamo abitare più di quaranta metaversi ecco allora che lo spazio delle possibilità supera di slancio, per estensione, qualunque concetto numerabile e si approssima all’idea di infinito (guarda caso il simbolo scelto da Mark Zuckerberg per il suo Meta). Come esplorare possibilità incommensurabili alla ricerca di soluzioni innovative, se non impiegando euristiche in dosi massicce e ricadendo così nell’insieme dei pochi casi noti?
Quello di cui avremmo bisogno non è una ipertrofica realtà aumentata o una
sovrabbondante stimolazione sensoriale. Piuttosto, recuperando il nominalismo di
Guglielmo da Occam, avremmo bisogno di un ambiente a realtà diminuita. È una
forma di “deprivazione sensoriale” (non percepire più la pesantezza delle proprie
membra) quella che avrebbe permesso ad Archimede di vivere una “esperienza
eureka” un atto di creatività decisivo per lo sviluppo scientifico. Ed è ancora una
esperienza di deprivazione sensoriale ad ispirare a John Cage la composizione 4’33’’con la quale esplora (e fa esplorare) l’esperienza conseguente all’immersione in uno “zero assoluto” sonoro (4 minuti e 33 secondi corrispondono infatti a 273 secondi e 273 è la temperatura negativa, espressa in gradi centigradi, che approssima lo zero assoluto).
Abbiamo pertanto disperato bisogno di una realtà diminuita per sfoltire lo spazio di possibilità e riportarlo a qualcosa di gestibile, in cui possano agire le nostre forme di creatività scandite dal “tempo giusto” della decisione. Quello che serve non è una camera anecoica, una semplice e analogica esperienza di deprivazione sensoriale, ma una ben più efficiente camera “an-egoica” che permetta di uscire dalle “passioni tristi” ricucendo il tessuto non già connettivo ma “collettivo” del cervello e recuperare l’idea del “noi”.