La domanda di fondo rimane una sola: qual è l’obiettivo strategico che l’UE si propone? Un codice etico per l’intelligenza artificiale? Ma sulla base di quale interpretazione etica? E valido per chi? L’impressione è che la Commissione e poi il Parlamento (un po’ meno il Consiglio, sempre più preda di tensioni protezionistiche nazionali come quelle francese e tedesca) abbiano ceduto al solo intento di arrivare primi, non importa come, per vedere l’UE ergersi da un pulpito che non domina, non producendo o investendo significativamente nel mercato delle tecnologie computazionali avanzate, per dettare un golden standard non sostenuto da un’economia interna altrettanto pronta ed effettivamente projettata su quel settore (al contrario di quanto avvenuto relativamente con successo col GDPR).
L’Unione Europea propone quindi la sua ricetta, più che davvero etica, estetica ad una dimensione internazionale che già vive politicamente ed economicamente di implementazioni AI sempre più spregiudicate, ma anche innovative e sperimentali, atteggiandosi a tutore di un costume che occorre verificare in concreto chi sarà disposto a riconoscere ed in che modo a rispettarlo, all’esterno, ma anche all’interno. Secondo i canoni della realpolitik, ne risulta una postura difensiva, che qualcuno Oltreoceano ha perfino definito patetica, mossa dall’intenzione di battere un colpo, in zona Cesarini prima della fine della Legislatura, sul tema di cui tutti parlano, ma senza possederlo appieno.
Il frutto artificioso di una forzata sintesi di posizioni che, oltre ad arrischiarne la reale sostenibilità, non rende leggibile il concreto obiettivo politico ed economico di questa strategia.
Si tratta di un confronto nella dimensione oggi totalmente geopolitica della tecnologia, che si può vincere con un’azione di proiezione ed influenza economica sostanziale, non con fragili espedienti culturali di poca attualità.
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