Risalgono agli anni Cinquanta le prime indagini scientifiche sui potenziali effetti dei campi elettromagnetici a radiofrequenza. Le prime ricerche in questo settore si concentrarono sulle possibili conseguenze sanitarie dovute all’esposizione di militari a contatto con apparati radar installati su navi e in zone militari. Nel corso degli ultimi 10 anni, come si evince dallo studio condotto per la Fondazione Ugo Bordoni (Fub) dalle tre esperte di campi elettromagnetici, Marina Barbiroli, Doriana Guiducci e Simona Valbonesi, si sono concentrati gli sforzi maggiori con una spesa per la ricerca di circa 250 milioni. Ma ancora non sono stati diradati i dubbi sulle effettive conseguenze dell’uso dei cellulari. Le studiose, infatti, hanno osservato che manca una risposta definitiva alla domanda: l’esposizione ai campi a radiofrequenza provoca tumori nell’uomo? Proprio a questo interrogativo gli studi hanno cercato e cercano ancora di dare una risposta. Queste ricerche mirano a  individuare le possibili interazioni tra l’esposizione degli individui a degli agenti esterni (onde radio) e l’insorgenza di particolari neoplasie intracraniche (meningiomi, gliomi) e gliomi del nervo acustico. <<Lo studio, portato avanti da Interphone e da altri istituti di ricerca internazionali –  sottolineano le ricercatrici – sembrerebbe non suggerire una relazione causale tra uso del telefono cellulare e tumori cerebrali, così come tra esposizione a campi a radiofrequenza e tumori in genere>>.

La linea delle studiose tuttavia è in sintonia con il panel tenutosi a Lione nel maggio del 2011, nel quale si è giunti alla conclusione che <<Le limitate evidenze tra esposizione ai campi a radiofrequenza emesse dai telefoni cellulari ed insorgenza di glioma e neurinoma acustico nell’uomo e negli animali da esperimento non possono essere archiviate come frutto di casualità, bias o fluttuazioni statistiche>>. Tale conclusione suggerisce però che gli studi fin qui effettuati non consentono di assolvere in via definitiva i campi elettromagnetici dall’accusa di provocare danni alla salute. Le studiose sottolineano la posizione dello Iarc sui possibili effetti cancerogeni dei campi a radiofrequenza, ma anche che, allo stato attuale, l’effettiva entità del danno da telefonino è sconosciuta ed anche che ci sono dati sufficienti per ritenere che il rischio possa definirsi bassissimo, se non addirittura nullo. L’interrogativo delle studiose quindi investe in pieno le richieste di chiarezza che provengono dai consumatori: <<A questo punto quindi quali regole seguire? Rinunciare all’utilizzo di una tecnologia che ormai è diventata parte integrante della nostra quotidianità, oppure negare l’esistenza, anche a livello ipotetico di effetti sulla salute?>> Ma il buon senso suggerisce, in particolare ai bambini e agli adolescenti, di usare l’auricolare, gli Sms e limitare le chiamate. In conclusione, le studiose si augurano che le indagini epidemiologiche vadano avanti speditamente per individuare eventuali meccanismi di connessione e accertare possibili effetti a lungo termine (latenza maggiore 30 anni) e concentrarsi maggiormente sullo studio degli effetti sui bambini e gli adolescenti.

Le diverse norme vigenti in Italia, rispetto alla comunità europea, in materia di esposizione alle onde radio, non avrebbe fondamento scientifico secondo Marina Barbiroli, Doriana Guiducci e Simona Valbonesi. I limiti sono basati su tre livelli di esposizione e unicamente su grandezze radiometriche, tali livelli sono i “limiti di esposizione” (20 V/m per i sistemi radiomobili), il “valore di attenzione” (6 V/m nelle zone a permanenza prolungata superiore alle 4 ore) e gli “obiettivi di qualità” (6 V/m nelle aree intensamente frequentate). Parametri che tutelano la popolazione non solo da  effetti acuti, ma anche da eventuali effetti a lungo termine. Le normative in vigore in Italia, rispetto a quelle europee fondate sull’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), non hanno alcuna base scientifica secondo le ricercatrici, perché i limiti individuati per difendersi da eventuali effetti a lungo termine sono poco chiari e non si conosce il meccanismo fisico. I limiti indicati dall’Icnirp, invece, si basano sulla misurazione della quantità di radiazioni che possono essere assorbite dal corpo umano alle diverse frequenze (effetti accertati). Le studiose calcolano che i limiti imposti dalla normativa italiana sono da 7 a 45 volte superiori a quelli previsti dall’attuale normativa internazionale. La modalità di valutazione del rispetto dei limiti è un’altra riflessione sollevata dalle ricercatrici: Il rispetto dei valori limite imposti dalla normativa italiana è condizione necessaria per poter installare le stazioni radiobase. Nella fase di autorizzazione si rendono quindi necessarie valutazioni teoriche/simulative, non essendo possibile effettuare misure dal momento che l’impianto non è  ancora in funzione. È consuetudine, nella fase preliminare del progetto, adottare parametri più cauti: il valore di 6 V/m, quando sarebbe appropriato considerare il limite di 20 V/m. La normativa attuale si basa più su dei modelli che sul reale funzionamento degli apparati di trasmissione dei segnali. Si considera, infatti, massima la potenza che può essere generata dai dispositivi, sebbene durante il funzionamento non avvenga quasi mai, sia per ragioni legate al controllo della interferenza sia perché raramente la rete lavora nelle condizioni di massimo traffico. Le stime dei livelli di campo elettromagnetico si basano sulla propagazione in ambiente aperto, non considerando l’attenuazione del campo che si ha, ad esempio, quando il segnale attraversa una parete, ovvero quando il terminale mobile funziona all’interno delle abitazioni.

È noto che valori di campo elettromagnetico in interno sono da 4 a più di 10 volte più piccoli rispetto a quelli in esterno. Le tre ricercatrici, insomma, chiedono regole più scientifiche per disciplinare la fase di installazione del sistemi radiomobili di quarta generazione (LTE e WiMAX mobile). Il sistema 4G, in grado di fornire grande velocità e qualità del segnale,  necessita di aree di copertura piuttosto piccole, perché solo a una distanza ridotta dal trasmettitore è possibile garantire bit-rate elevate. Ciò comporta la necessità di installare un numero di antenne più elevato, in particolare nelle zone urbane. Inoltre, un altro limite dell’attuale normativa è rappresentato dalla ridotta possibilità di sfruttare le infrastrutture in condivisione (site-sharing). Là dove quindi si riescono (generalmente nelle città) a individuare siti, si hanno le infrastrutture adatte a supportare la nuova tecnologia di quarta generazione; nelle zone svantaggiate, invece, i nuovi sistemi stentano a decollare.

Articolo precedentePalermo, 29/10: sesto simposio annuale Fondazione Ri.MED
Articolo successivoCinema e digitale: quando l’innovazione fa chiudere