Già dal 1 gennaio del 2018 Pechino, come annunciato nel 2017 all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ha reso operante il divieto di importazione dall’Occidente di 24 tipologie di materiali, tra rifiuti plastici, organici e chimici per innalzare il livello qualitativo delle cosiddette materie prime secondarie (MPS) e quindi di produzione nazionale. Con tradizionale “flemma asiatica”, il colosso “Cina” ha innescato quindi, con un piano quinquennale, un’ autentica rivoluzione socio-economica e ambientale, con un impatto globale in materia di riduzione di inquinamento plastico, come buste non degradabili (spessore inferiore 0,025 millimetri) e cannucce monouso, nelle principali città del Paese entro il 2020 e in tutto lo Stato tra il 2022 ed il 2025, per i mercati del pesce. Secondo l’analisi Our World in Data pubblicata dall’Università di Oxford, solo nel 2017 la Cina, primo produttore e utilizzatore mondiale di plastica, ha raccolto 215 milioni di tonnellate di rifiuti domestici urbani, seguita dagli Stati Uniti con 38 milioni di tonnellate. Anche altre nazioni del sud-est asiatico stanno adottando analoghe misure contro l’importazione di materie plastiche, come il Vietnam, la Cambogia, la Thailandia e la Malesia che hanno annunciato di voler vietare integralmente le importazioni di tali rifiuti entro il 2025. Malgrado il consumo stabile di carbone e l’aumento di quello di gas e di petrolio, il Governo cinese e la Commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, che ha anche vietato l’uso dei rifiuti plastici per scopi medici, si è impegnato nel frattempo ad istituire un sistema di gestione delle fasi di produzione e consumo inquinante di tali prodotti, e a sostenere con incentivi lo smaltimento e l’utilizzo di materiali alternativi biodegradabili e riciclabili. Con l’auspicio che gli effetti del Coronavirus non comportino dei freni rispetto allo slancio della riforma varata.