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Non si sa ancora fino a che punto la legge o la tecnologia sono capaci di proteggere la privacy perché l’era dei Big Data è ancora nella sua infanzia. Finora accumuliamo dati, ma non sappiamo sfruttare bene i numeri. Dobbiamo aspettare, o forse temere, la maturazione delle tecniche di ricerca, sempre più complesse ed efficaci.  O come in questi giorni, avere l’ansia di trovarci trasparenti davanti all’FBI. In questi giorni anche un’altra notizia mi ha impressionato. WhatsApp permette con un codice di accedere ai messaggi altrui, l’articolo si rivolgeva agli innammorati con desiderio di certezze. Ma dove siamo? Dove andiamo? Il video di  “The Guardian” è interessante perchè unisce ogni era con la sua tecnologia ad un modo di concepire la privacy.

Immagino spesso i miei studenti che diventano ricchi per aver creato un app che propone un uso socialmente e personalmente utile dei Big Data, oggi mi manca la certezza sul cosa possa essere più  socialmente utile in merito alla privacy. Abbiamo bisogno di chi ci aiuta a nasconderci? Forse sì perchè è chiaro che siamo già totalmente prigionieri dei dati che lasciamo, sono le nostre tracce. Intanto io richiederei per lo meno una legislazione internazionale che  ci dia il diritto di conoscere  dati e profili racchiusi pezzo per pezzo nei Big Data e che sono a disposizione. Inoltre a noi tutti servirebbe certamente qualche capacità tecnica di controllo, la legge dunque diventa fondamentale perché la possibilità riconosciuta ovunque di combattere gli abusi è indispensabile. Se l’industria ha accesso ai miei dati, perché non posso possedere un’applicazione che serve a scrutare, seguire la mia persona digitale?
Probabilmente chiedo troppo…
La cosa che può e dovrà piuttosto cambiare è la psicologia degli utenti, intanto siamo noi tutti a doverci confrontare con questa nuova dipendenza.

Il concetto è anziano. Già Platone (il banchetto) sosteneva che basta spostare la conoscenza e l’esperienza fuori della memoria per svuotare il soggetto. Però questa eviscerazione non si può frenare. Tutta la nostra esperienza intellettuale e sensoriale sta emigrando sulla rete e nel Cloud. Si tratta di un trasferimento generale delle nostre capacità percettive fuori dal corpo, archiviandole in una sorta di presente esteso che include tutta la memoria fuori della testa nelle varie tecnologie di archivio.

Ci fidiamo senza resistenza e approfittiamo al massimo del momento presente (la più grande prova di sapienza secondo le filosofie Cinesi). I francesi hanno introdotto nel nostro mondo il concetto del “Presentismo”, una tendenza a concentrarsi sul momento più che sul progetto di vita.

La socialità ormai è virtualizzata e occupa il ciberspazio attraverso gli schermi. L’esercizio è di imparare ad occupare questo terzo spazio. Siamo ancora nei primi tempi – quelli dell’esplorazione – del nostro incontro con lo spazio virtuale. L’equilibro si ritroverà infine, quando la gente, capendo che sta perdendo il suo corpo, ricomincerà a valutare l’esperienza fisica.

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Derrick de Kerckhove
Direttore scientifico di Media Duemila e Osservatorio TuttiMedia. Visiting professor al Politecnico di Milano. Ha diretto dal 1983 al 2008 il McLuhan Program in Culture & Technology dell'Università di Toronto. È autore di "La pelle della cultura e dell'intelligenza connessa" ("The Skin of Culture and Connected Intelligence"). Già docente presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II dove è stato titolare degli insegnamenti di "Sociologia della cultura digitale" e di "Marketing e nuovi media".