di ELEONORA FRANCESCHINI –
Bambini di uno o due anni che rubano gli iPad al papà; ragazzini poco più grandi che si interrogano sul perché andare a scuola “se tanto c’è Wikipedia”; scolaretti che non accettano i rimproveri di genitori e maestre sull’ortografia. “Perché preoccuparsi – dicono – tutti usate il correttore automatico”. E’ lo scenario dell’infanzia 2.0 descritto da Sophie des Désert in un articolo apparso sul Nouvel Observateur.
I nati digitali, che sanno usare e gestire dispositivi all’avanguardia e dinamiche della Rete con abilità e pertinenza certamente maggiore dei loro genitori, sono un fenomeno che attira l’attenzione di studiosi ed esperti. Il giornalista americano Nicholas Carr paventa una regressione dell’intelligenza infantile, abbrutita da Internet e dagli schermi. Il nostro direttore scientifico ha proposto più volte il suo articolo dal titolo “Google ci rende stupidi” per una riflessione condivisa sulle nuove attitudini e capacità delle generazioni cresciute nell’era digitale. Bernard Stiegler, filosofo specialista di tecnologie digitali, avverte: “I bambini dovrebbero imparare prima a leggere e scrivere e poi ad usare il computer, altrimenti ne rimarranno travolti”.
Ma è la scienza a dare concretezza ai timori di Carr e Stiegler: il professore Olivier Houdé, direttore del laboratorio di psicologia dello sviluppo e dell’educazione infantile al Centro nazionale di ricerca scientifica francese, ha prodotto interessanti studi proprio legati alle relazioni tra l’intelligenza infantile e l’esposizione dei bambini agli strumenti ipertecnologici che pervadono le vite degli adulti. (Su questo argomento Media Duemila e l’Osservatorio TuttiMedia hanno promosso un incontro con Norman Doidge autore del libro Cervello Infinito, durante il primo seminario dedicato al McLuhan centenary) Come è noto, infatti, il cervello si forma nei primi anni di vita, grazie agli impulsi che riceve e alla sua particolare elasticità. Dopo un’analisi su alcuni alunni di quinta elementare che ha misurato con elettrodi l’attività della rete neuronale davanti al computer, il professor Houdé ha potuto osservare una forte sollecitazione delle regioni cerebrali dedicate alla vista, ai sensi e all’intelligenza elementare: “Questa attività va a discapito dell’area più nobile del cervello, considerata l’organo della civilizzazione. Senza essere catastrofisti, si rischia di modificare l’intelligenza umana”.
Se i primi a subire il fascino del touch screen, di una grafica accattivante, delle immagini in alta risoluzione o dei social media sono gli adulti, va da sé quanto possano risultare seducenti per un bambino. Solo fino a qualche decennio fa bastavano le scope ballerine di Fantasia di Walt Disney per catturare la loro attenzione. La soluzione del problema potrebbe risiedere nella quantità di tempo che i genitori concedono ai figli in “compagnia” dei nuovi media.
Credendo di preservarli dalla noia – ma anche assicurandosi qualche ora di pace e silenzio – mamme e papà lasciano i bambini davanti alle televisioni, agli iPad, ai computer, ai videogiochi. E proprio questi ultimi sono spesso fonte di grandi danni: in molti Paesi dell’Asia, la dipendenza dai videogiochi è considerata una vera e propria malattia che anticipa disturbi più gravi, come fobie sociali o iperattività. Secondo lo psichiatra Serge Tisseron “I bambini non sanno più giocare: lottano con i loro compagni come fossero su un ring; hanno perso la capacità di immaginare, di sviluppare il senso dell’umorismo e questo li porta ad essere più esposti a problemi di tipo depressivo”.
E per quanto al giorno d’oggi sia indispensabile, anche Internet suscita le preoccupazioni di professori e insegnanti: gli studenti non conoscono la proprietà intellettuale, copiano le pagine di Wikipedia, hanno l’illusione del sapere e nessuna capacità di ragionare da soli. “Nello sviluppo dell’intelligenza”, osserva ancora il professor Houdé, “esiste un momento essenziale: l’inibizione, cioè la facoltà di bloccare informazioni non pertinenti, di selezionare ciò di cui abbiamo bisogno. Oggi, soprattutto per i bambini, quest’operazione è complicata dalla quantità di informazioni a cui siamo sottoposti: il cervello è sovraccaricato e rischia un cortocircuito”.
A queste voci allarmanti si uniscono pareri più positivi: Daphné Bavelier, delle università di Rochester e Ginevra, ha scoperto effetti benefici dei videogiochi d’azione: aiuterebbero a sviluppare le capacità di concentrazione e attenzione e la memoria visiva a breve termine. Per lo scrittore e filosofo Michel Serres, grazie ai computer quest’infanzia moderna possiede “una memoria più potente della nostra, un’immaginazione guarnita da milioni di icone e la capacità di risolvere, con l’aiuto di così tanti software, centinaia di problemi che noi non avremmo potuto affrontare da soli”. Serres non parla di un cervello vuoto, ma di “un cervello libero che permette di concentrarsi su un’intelligenza inventiva”.
Stabilire a chi credere diventa ancora più difficile quando si scopre che i geek della Silicon Valley, gli stessi che producono, ideano e sviluppano tutti i dispositivi demonizzati dalla maggioranza degli esperti, non gradiscono che i loro figli vi abbiano a che fare. Sono talmente spaventati dalle loro creature tecnologiche, che i loro piccoli frequentano le Waldorf Schools, scuole private senza schermi. All’insegna del “Back to basics”, lì i giocattoli di legno si alternano alle paste modellabili e ai lavori a maglia, mentre le maestre scrivono col gesso su classiche – o antiquate? – lavagne nere. E’ un modo, come sottolineato dal noto pedagogista francese, Philippe Meirieu, “per invertire la rotta e dare ai bambini valori diversi rispetto a quelli che trovano davanti agli schermi, per riabilitare la scrittura e la concentrazione, riapprendere la poesia e le virtù di una bella lettera d’amore”.
Questi toni nostalgici possono affascinare tanto quanto un touch screen, ma non si può non riconoscere quanto i tempi siano cambiati: una totale privazione dei nuovi dispositivi tecnologici non porterebbe grandi giovamenti ai bambini. La soluzione sembra essere ancora una volta nelle parole del professor Houdé: “Tutti noi, genitori, ricercatori, insegnanti dobbiamo reagire per continuare a trasmettere ai nostri piccoli, accanto alla loro intelligenza rapida, fluida e frammentata, il nostro modo di pensare più lento e più profondo. Se si trova il giusto equilibrio tra i due, i bambini faranno meraviglie”.
Eleonora Franceschini
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