Quasi 24 anni fa ho attraversato i campi petroliferi del Kuwait meridionale, incendiati dall’esercito iracheno in fuga davanti alle truppe statunitensi nella prima Guerra del Golfo. Il cielo era congestionato di nuvole di fumo nero ed era così buio che i marine americani con cui viaggiavo, a mezzogiorno, dovevano usare le torce per leggere le mappe spiegazzate, stese sui cofani dei blindati. Lo scenario – torri di fuoco contro il cielo plumbeo, un’aria così acre da essere quasi irrespirabile – era la visione di un’apocalisse del XX secolo. Ho seguito guerre e crisi in Medio Oriente per quasi vent’anni come corrispondente per il Washington Post. Il petrolio e le risorse energetiche sono sempre stati al centro di ogni conflitto: a volte erano la ragione di sicurezza con cui gli Stati Uniti giustificavano un’invasione, altre volte la miccia che innescava scontri sociali ed economici che dilaniavano i Paesi dall’interno, causando disordini e rivoluzioni.
Cosa è cambiato dopo vent’anni
Sono passati più di vent’anni da quando le milizie irachene diedero fuoco al petrolio del Kuwait e l’Iraq si ritrova sul fronte opposto di un’invasione operata dal gruppo terroristico forse più insidioso e infido mai emerso in Medio Oriente. Quando lo Stato Islamico ha invaso per la prima volta le aree sunnite dell’Iraq settentrionale, i simpatizzanti sunniti hanno aiutato i guerriglieri a conquistare ampie porzioni di territorio che comprendevano dei campi petroliferi. Lo Stato Islamico è diventato quindi il primo gruppo terroristico militante ad appropriarsi di campi petroliferi mediorientali e a utilizzare quelle risorse per finanziare gran parte delle proprie attività, attingendo a un flusso di cassa che, secondo alcune stime, si aggira intorno a 1-2 milioni di dollari al giorno. Si tratta di una rivoluzione epocale nelle strategie militari e terroristiche in Medio Oriente. Al Qaeda, il gruppo da cui ha avuto origine l’Isis, operava grazie alle “donazioni” monetarie dei nemici dell’Occidente sparsi in tutto il Medio Oriente. Sia al Qaeda che lo Stato Islamico hanno usato i riscatti dei rapimenti e altre forme estorsive per raccogliere fondi, ma l’Isis si è spinto oltre, inaugurando un nuovo sistema per finanziare il reclutamento di combattenti, le armi e le attività terroristiche. Dopo che le truppe americane hanno deposto il presidente iracheno Saddam Hussein nella primavera del 2003, ho visitato Mosul nel nord dell’Iraq, dove quasi tutte le conversazioni euforiche che si tenevano nelle case del tè e nei ristoranti immaginavano una possibile rinascita dei campi petroliferi locali, grazie all’intervento delle compagnie energetiche internazionali che avrebbero sostituito le attrezzature vetuste e mai riparate in regime di embargo contro Saddam, portando nuove tecnologie e nuova prosperità nella regione settentrionale. Oggi invece, almeno sette dei maggiori campi petroliferi nel nord dell’Iraq, vicino a Mosul, Tikrit e Kirkuk – con una capacità complessiva di circa 80.000 barili giornalieri – sono sotto il controllo dello Stato Islamico e vengono sfruttati a vantaggio del terrorismo e delle operazioni militari. I danni inflitti dai terroristi alla grande pipeline petrolifera irachena che collega la Turchia (è saltata in aria anche la principale stazione di pompaggio) sono stati così gravi da metterla completamente fuori uso nel mese di marzo. E difficilmente tornerà a funzionare nei prossimi anni. In Siria, l’Isis controlla circa il 60 percento delle risorse petrolifere del Paese. Si calcola che lo Stato Islamico abbia una produzione locale intorno ai 50.000 barili giornalieri: ben al di sotto dei 220.000 della Siria pre-conflitto, ma comunque una generosa fonte di reddito per il gruppo terroristico. Ora alcuni analisti militari a Washington si chiedono se l’unico modo di tagliare gli introiti allo Stato Islamico non sia bombardare le strutture produttive di petrolio che alimentano il gruppo. I droni americani hanno già attaccato qualche raffineria mobile.
Il Gruppo Energy Intelligence ha scritto quest’autunno: “Con l’aiuto di intermediari locali – che controllano la supply chain estraendo il greggio, trasportandolo nei camion cisterna, corrompendo i checkpoint di confine e seguendo le vendite – il settentrione della Penisola arabica è diventato una zona di mercato nero che finanzia il terrorismo transnazionale, gestita dall’Isis e dalle altre schegge fuoriuscite di al Qaeda”. Chi è responsabile di questo caos?
I passi sbagliati
Da vent’anni osservo in prima linea la politica del governo statunitense in Medio Oriente e ho notato una preoccupante tendenza nella condotta del mio Paese: non impariamo dagli errori del passato. Quando l’Unione Sovietica si ritirò dall’Afghanistan, gli Stati Uniti gradualmente persero interesse. Nei miei reportage ho parlato a lungo degli spargimenti di sangue e della violenza tra i signori della guerra che riempirono quel vuoto. Poi gli afgani si sono stancati della brutalità e hanno abbracciato l’ideologia talebana che ha colmato il vuoto di leadership. Ma anche i talebani hanno imboccato presto la strada della violenza, al Qaeda ha abbattuto le Torri Gemelle a New York e gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan. Ma gli Stati Uniti non avevano alcuna strategia per ricostruire un Paese e un governo da zero. Invece di fare tesoro della buona volontà che animava larga parte della popolazione afgana dopo la cacciata dei talebani per mano americana e delle forze della coalizione, come ho potuto testimoniare con i miei occhi, gli Stati Uniti ancora una volta hanno perso interesse per l’Afghanistan e hanno deciso invece di dare la caccia al presidente iracheno Saddam Hussein facendo leva su speciosi argomenti di inesistenti armi chimiche e biologiche e presunti legami con alQaeda. Neppure in questo caso gli Stati Uniti avevano una valida strategia per ricostruire il Paese e hanno finito per appoggiare un leader, Nuri Al-Maliki, la cui politica settaria ha lacerato il Paese lasciandolo vulnerabile all’infiltrazione dello Stato Islamico cui abbiamo assistito nei mesi passati. Alla fine, stando a voci interne a Washington, i funzionari americani hanno perso ogni fiducia in Al-Maliki – che invece prima sostenevano – al punto da liquidare i suoi avvertimenti sull’imminente ascesa dell’Isis come dicerie messe in giro per ragioni politiche. Il neoeletto primo ministro iracheno Haider Al-Abadi ha scelto la strada della giusta unità nazionale, cercando di portare accordo tra sunniti, sciti e curdi. Ma le sfide dello Stato Islamico sono enormi: militari, politiche ed economiche. Solo il 10 percento della produzione petrolifera irachena è concentrato nella regione del Kurdistan, controllata dall’autorità governativa. Il restante 90 percento si trova a sud, nella parte di territorio che rimane sotto il controllo di Baghdad. L’instabilità nel nord sta costringendo molti uomini brillanti e preparati a lasciare il Paese. Il calo globale dei prezzi del petrolio ha indotto il Fondo Monetario Internazionale a prevedere che il Pil iracheno subirà una contrazione del 2,7 percento quest’anno, a fronte del 5,9 percento di crescita che aveva invece stimato mesi fa. “Il conflitto nel nord dell’Iraq comincia a far sentire i suoi effetti sulla crescita non petrolifera del Paese” ha scritto l’FMI, aggiungendo: “Anche se la produzione di greggio è concentrata essenzialmente nel sud del Paese e i livelli produttivi sono rimasti finora intoccati, la fuga di personale specializzato limiterà la possibilità dell’Iraq di espandere, se non addirittura di mantenere, la propria produzione petrolifera in futuro”. L’Iraq, che pompa circa 3,5 milioni di barili al giorno, è il secondo esportatore dell’OPEC dopo l’Arabia Saudita. Qual è allora la risposta?
Da cosa partire per fronteggiare lo Stato Islamico
La massima priorità per l’Iraq e il resto del mondo è, indiscutibilmente, prosciugare le fonti di finanziamento dello Stato Islamico. I bombardamenti aerei, soprattutto se i bersagli sono le raffinerie, potrebbero limitare la fornitura energetica e la capacità dello Stato Islamico di raggiungere la sua vasta clientela: gli 8 milioni di persone in Iraq e in Siria che vivono nei territori controllati dal gruppo. Anche il greggio direttamente estratto dai pozzi è commerciabile, ma è il prodotto raffinato che riempie le casse. E forse gli Stati Uniti hanno imparato a mitigare la spavalderia in una regione dove le coalizioni sono difficili da costruire e ancora più difficili da tenere insieme. Oggi l’amministrazione e l’esercito USA non parlano di sconfiggere lo Stato Islamico, quanto piuttosto di “degradarlo”. Si prende coscienza del fatto che i gruppi estremisti continueranno a evolversi in nuove organizzazioni, attingendo a nuovi canali di finanziamento e supporto internazionale. Oggi uno dei principali problemi dell’amministrazione USA nella ridefinizione della politica mediorientale è la stanchezza pubblica verso la guerra. Anche se lo Stato Islamico suscita repulsione con i video delle decapitazioni di giornalisti e ostaggi occidentali, il pubblico americano assiste alla guerra e al successivo fallimento dei tentativi di portare pace e stabilità – soprattutto in una regione così volatile – con crescente cinismo. E con l’aumento della produzione energetica interna, gli americani non associano più automaticamente il petrolio mediorientale con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. C’è tuttavia un errore che difficilmente gli americani ripeteranno presto… ed è dichiarare “missione compiuta” in qualsiasi luogo del Medio Oriente – come vantò il prematuro striscione del presidente George W. Bush su una portaerei americana nella cerimonia che seguì la caduta di Saddam Hussein. Forse allora qualche lezione l’abbiamo imparata, dopo decenni di guerra in Medio Oriente.
Molly Moore