Negli ultimi cinque mesi (luglio-novembre), la piccola grande Amal (un burattino alto 3,5 metri che rappresenta i giovane rifugiati, creato da Handspring Puppet Company) è il simbolo dei bambini in cerca di patria che urlano: “Non dimenticarti di noi”.
Amal ha calcato 5000 km di suolo europeo, trasformando istantaneamente questo immenso territorio in un palcoscenico mondiale, forse il più grande mai concepito da un drammaturgo. Eppure, nonostante il gran parlare della Grecia e di come alcuni bifolchi greci abbiano lanciato pietre e spazzatura contro la gigantesca marionetta, nessuno sembra aver osservato che questo evento rappresenta contemporaneamente un rinnovamento epocale della tragedia greca classica e anche la reinvenzione del teatro su scala globale, trasformandoci tutti in spettatori di uno spettacolo commentato dai media di tutto il mondo, nel ruolo del coro classico. Si dà anche il caso che esca dalla stessa area geografica della tragedia greca (Siria, Turchia, Grecia e oltre).
La tragedia dei nostri giorni è stata riproposta dagli artisti che l’hanno fatta loro: tutto in The Walk (festival itinerante di arte e speranza a sostegno dei rifugiati, con Direzione artistica di Amir Nizar Zuabi) rimanda – generalmente in modo inconsapevole – al formato, al contenuto, al significato, alle intenzioni e agli effetti del dramma greco classico. Se Aristotele tornasse per una visita, sarebbe il primo a riconoscerlo. Come ha detto succintamente: “La tragedia è un’imitazione (mimēsis) di un’azione che è seria, completa e di una certa grandezza… attraverso la pietà (eleos) e la paura (phobos), con la giusta epurazione (catarsi) da queste emozioni”. L’azione è abbastanza seria e completa nella sua semplicità, una figura umana che cammina silenziosamente verso la sicurezza.
The Walk è una mimesi di una tragedia reale e continua di esilio a causa dell’indifferenza casuale (ubris) di uomini potenti insensibili. È un dramma condiviso da tutti noi che esige pietà e paura da ognuno di noi in modo diverso e si basa su un disordine globale (miasma) di cui l’attuale pandemia non è del tutto innocente. Si vorrebbe portare al riconoscimento (anagnorisis) e alla fine – ma questo è un tentativo molto lungo – alla catarsi, un termine solitamente tradotto con ‘purificazione’ ma che significa qualcosa di più clinico, cioè una purga, o il senso di sollievo che, come ci si libera dai preconcetti, di solito avviene dopo che si comprende davvero qualcosa di veramente difficile che ha disturbato il nostro subconscio per molto tempo.
Ora i dettagli. Amal è una marionetta, un simbolo dell’uomo qualunque (che richiama anche il palcoscenico medievale), in questo caso, ovviamente, una donna, o una ragazzina di 9 anni, che rappresenta i bambini rifugiati nel durissimo viaggio verso la salvezza con solo i vestiti addosso. In questa immagine, grazie alla sua definizione volutamente scarsa, dai tratti comuni, e all’abbigliamento di stile folcloristico generico del Mediterraneo orientale, ognuno può identificare, se non se stesso personalmente, almeno la condizione di queste migliaia di bambini sulla strada in fuga da una morte certa nel loro Paese. Questa condizione è anche la nostra per estensione e contrasto, in fuga da pandemie e conflitti mondiali. Amal, soprattutto, rappresenta e si rivolge ai bambini del mondo, quelli sia a casa che sulla strada a cui noi adulti stiamo dando in eredità questo mondo disordinato. Ovunque Amal si fermi, è accolta da bambini sbalorditi che entrano immediatamente in empatia con lei, anche se un’oscura consapevolezza del dramma del mondo reale si insinua nella loro coscienza.
Posso già sentire lo psicologo da poltrona classificare Amal come “passiva-aggressiva“, un altro sotterfugio intellettuale per evitare la sfida. Ma The Walk affronta una crisi presente di cui solo gli atteggiamenti umani sono la causa, quindi alla quale, solo gli atteggiamenti umani possono portare una soluzione. Il suo scopo è quello di scuotere il pubblico dall’indifferenza verso le situazione degli altri, concentrandosi su un sintomo, molto evidente, del disagio globale.
Naturalmente, nessuno di noi può fare nulla. Questo fa parte della nostra impotenza e (auto)pietà. Ma tutti noi insieme possiamo fare qualcosa, cioè cambiare l’atteggiamento dalla paura e dall’indifferenza a un nuovo senso, non di colpa, ma di responsabilità condivisa. L’attuale disordine mondiale è una catastrofe umana, non “naturale”. Il messaggio di questa straordinaria ‘commedia’ non riguarda solo la figura del rifugiato, ma il terreno stesso dell’Europa, strappato al suo status convenzionale di distesa geografica separata – e meramente oggettiva – occupata da una sequenza di nazioni, per diventare un palcoscenico, sì, quel palcoscenico di cui parlava Shakespeare, il mondo, dove ora si svolge un dramma umano. Quello che Amal sta facendo è cambiare il terreno della nostra comprensione.