Mettiamo a disposizione dei nostri lettori un’interessante intervista di Vincenzo Susca, direttore dipartimento Sociologia all’Università di Montpellier pubblicata su Atlantico.fr

Atlantico.fr: la lunga quarantena e il confinamento degli ultimi mesi ha profondamente modificato il nostro rapporto con gli altri e le nostre libertà fondamentali?

Vincenzo Susca: La libertà non è semplicemente un principio, un’astrazione. Ha a che fare con l’esperienza ed è il risultato di pratiche, accordi, conflitti. Per tre mesi abbiamo dovuto rinunciare a diverse abitudini che caratterizzano da tanti secoli la nostra cultura. A dire il vero, le forze dell’ordine nell’Unione Europea non hanno dovuto lottare troppo per farci accettare la situazione, perché l’emergenza sanitaria è stata compresa e integrata quasi completamente. Contrariamente a quanto è accaduto e sta accadendo negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Brasile, qui c’è stato un ampio consenso sui rischi e sulla gravità della pandemia. Non abbiamo avuto, per esempio, movimenti politici o figure come i signori Bolsonaro, Trump e Johnson, la cui posizione a tal proposito è stata dubbia e spesso negazionista. Abbiamo così scelto di sacrificare le nostre libertà personali e sociali in nome della salute, di un corpo sano. In effetti, è proprio per la sopravvivenza del popolo, per proteggerlo dalle malattie, dalla violenza e dagli stranieri, che l’ordine del Leviatano, ben delineato da Thomas Hobbes e recentemente passato in rassegna da Giacomo Marramao, è stato instaurato in Europa tra il XV e il XVII secolo, con l’idea che il diritto naturale precede quello civile. In un certo senso, accettando questo scambio – salute in cambio della libertà – abbiamo confermato le nostre origini moderne. Tuttavia, ho l’impressione che solo ora comprendiamo in profondità e in superficie il vero scopo politico ed economico delle misure implementate per far fronte alla crisi sanitaria: difendere l’ordine istituito fondato sulla produzione, la concorrenza, la precarietà e su degli individui separati gli uni dagli altri. In questo senso, il Covid-19 è stato un ottimo pretesto per mettere ordine dove non ce n’era. Non credo affatto alle teorie cospirazioniste, ma va detto che in un momento di crisi, di dubbi e di sfiducia nei confronti del neoliberismo e dei suoi molteplici rappresentanti politici, laddove il mondo intero è stato attraversato da turbolenze, rivolte e movimenti di protesta, il confinamento degli individui ha funto da perfetto strumento per spegnere il fuoco delle ribellioni e neutralizzarne le rivendicazioni. È stato solo per motivi di salute, di vita e di morte che è stato integrato da tutti. Tuttavia, la frustrazione e il malumore stanno crescendo esponenzialmente tra le persone a causa dei danni causati dal sistema.

 

Dove e come si esprime?

Innanzitutto, si è capito rapidamente e chiaramente che la pandemia sarebbe stata meno aggressiva se non avessimo impoverito così tanto i nostri ospedali e, in generale, l’intero settore della previdenza sociale. Inoltre, il ricorso forzato al telelavoro, la disoccupazione di massa e l’annientamento delle attività culturali stanno scavando consciamente o inconsciamente un grande vuoto da cui emergono il disprezzo e la diffidenza nei contronti dei poteri istituiti. Ecco perché in molti cedono alle lusinghe delle fake news o delle più strampalate teorie complottistiche: non solo e non tanto per ignoranza, quanto per la delegittimazione che investe le élite ed i garanti delle verità ufficiali. In questo contesto, le rivolte successive all’assassinio di George Floyd non sono semplicemente legate alla questione del razzismo, ma anche a un malessere che viene dal basso, dagli outsider, dai dimenticati – dalla vita quotidiana – in relazione a un ordine politico ed economico incapace di assumersi la responsabilità dei propri errori, di mettersi in discussione e di proporre soluzioni radicali alla crisi. Sotto molti aspetti, la sua unica e più efficace risposta è stata: “Rimanete a casa”, ognuno per conto suo, secondo un’ideologia lapalissiana: visto che oggi più che mai “l’inferno è altro” (Sartre), guardatevi bene da chi vi sta attorno, pensate a voi stessi e tutto andrà bene. Questo è, per molti versi, il delitto perfetto della socialità! Ciò implica che, contrariamente al discorso pubblico e alla propaganda, si sta facendo di tutto per salvare l’ordine delle cose che ha reso possibile la violenza di questa pandemia, corollario della violenza contro l’ambiente e di quella nei confronti delle libertà personali e collettive!

Crede che possiamo facilmente riconquistare queste libertà perdute e sospese?

I politici che immaginavano che la sospensione della libertà sarebbe stata una parentesi semplice da superare si stanno oggi rivelando molto ingenui, persino irresponsabili. In realtà, tre mesi di stato d’eccezione hanno inscritto nel nostro immaginario e nelle nostre pratiche dei nostri codici difficili da disinnescare perché hanno modificato radicalmente il ritmo e le forme della nostra vita quotidiana, dalla sensibilità al linguaggio fino alle modalità che segnano le nostre interazioni con l’alterità sociale, ambientale e tecnica. Indossiamo ancora, d’altra parte, le mascherine, dispositivo potente per nascondere una parte di noi appannaggio di un’altra: quella che diffida dell’altro, rinunciando alla comunione, all’essere insieme e a qualsiasi corpo a corpo in nome della sicurezza e della salute. Vediamo ovunque serpeggiare una sorta di spaventosa sindrome di Stoccolma per la quale uscire è ansiogeno, sfiorare chi incrociamo un rischio da evitare, dove riconquistare la libertà è angosciante. In altre parole, il Covid-19 è andato oltre gli incubi sviluppati dalla fantascienza da Philip K. Dick, George Orwell a Charlie Brooker con il suo Black Mirror. Infatti, come abbiamo visto nelle migliaia di manifesti pubblicati a Madrid qualche giorno fa, la sesta stagione di Black Mirror è qui e ora, tra noi.

Lei ha appena scritto con Claudia Attimonelli il libro Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (http://mimesisedizioni.it/un-oscuro-riflettere.html), in cui suggerite che il serial inglese propone un ritratto fedele delle nostre società. Qual è il legame tra gli effetti sociali del Covid-19 e la fantascienza di Brooker?

Viviamo sulla nostra pelle la fine dell’umanesimo, cioè di un sistema incardinato sull’individuo razionale come centro del mondo, sull’uomo come padrone del mondo, possessore della natura, autore del proprio destino e di quello dell’ambiente. Black Mirror ci suggerisce che siamo dominati dal sistema stesso che abbiamo messo a punto per controllare, prevedere e organizzare tutto. Il mondo della tecnologia diventa così la nostra prigione, anche quando sembra un videogioco, Tik Tok, Facebook o Instagram. L’attuale pandemia non ha fatto altro che infliggere il colpo di grazia a tale umanesimo: ci mostra fino a che punto abbiamo devastato il mondo fino a mobilitare le forze della natura contro di noi! La nostra vita quotidiana è diventata distopica (la distopia si è fatta vita quotidiana, come abbiamo suggerito con Claudia https://www.youtube.com/watch?v=vBgAM_f23k4) dal momento in cui la nostra vita si riduce ai “bisogni essenziali”: lavoro, cibo, sopravvivenza… mentre i più astuti antropologi, sociologi e filosofi, da Georges Bataille a Philippe Joron passando per Jean Duvignaud, Jean Baudrillard e Michel Maffesoli, dimostrano che la vita risiede esattamente nella nostra “parte maledetta”, in ciò che è più improduttivo: il gioco, la festa, l’erotismo, la danza. Secondo una visione del genere, l’esistenza si compie pienamente solo nella dépense, nel dono di sé, ovvero nel darsi piuttosto che nel risparmiare e nell’accumulare. È esattamente la perdita del soggetto nell’altro che caratterizza l’esserci, in una condizione irriducibile alla ragione, alla morale e all’economia politica.

Questo modo di essere-insieme è perduto per sempre?

Non credo: è in noi e con noi da troppo tempo per poter sparire. Si può suggerire che l’umano nasce con esso come essere simbolico. Ne abbiamo già tracce fin dal Paleolitico, con l’arte rupestre scoperta nelle grotte di Lascaux, ma ancora prima, se pensiamo alla danza delle scimmie magnificamente filmata da Kubrick in 2001. Odissea nello Spazio, senza dimenticare tutte le feste che hanno segnato la civiltà egizia, greca e romana, fino al carnevale medioevale. In tutti questi momenti e dimensioni, lo spreco, il noi e l’inutile contano più dell’accumulo, dell’io e di ciò che è funzionale. Tuttavia, la storia ci mostra che quando questi impulsi vengono censurati o ignorati, si esprimono in modo esasperato, violento e persino irragionevole.

Crede che oggi sia così?

Gli spensierati raduni in barba alle regole del distanziamento sociale, senza mascherine, sulle rive del Canal Saint-Martin a Parigi, lungo i Navigli di, a Central Park di New York, spiagge della Sprea a Berlino o sul lungomare di Bari, che hanno scandalizzato giornalisti, studiosi e politici, rivelano la prepotente irruzione di un impulso vitalista del tutto irresponsabile, per il quale vale la pena provare l’emozione di stare insieme nonostante il rischio del contagio. In un certo senso, questa è l’espressione di una socialità che è stata bandita negli ultimi mesi, che mostra migliaia di giovani pronti ad assumere il rischio di ammalarsi piuttosto che sprofondare nella noia e nell’alienazione da telelavoro, tele-università e gabbie domestiche. In questo senso, se la ragione ci suggerisce di sconsigliare questo tipo di comportamento perché pericoloso, dal punto di vista sociologico, antropologico e psicologico non possiamo nasconderne la forza simbolica e la base emotiva. Si tratta di happening post-situazionisti che provocano le leggi e i costumi per affermare un altro modo di essere al mondo: non più rinchiusi in casa per telelavorare, uscire solo per gli acquisti essenziali, separati dagli altri, ma insieme, contro il principio di utilità, al di là della produzione. Si tratta, in effetti, di un gesto carnalesco che va compreso piuttosto che stigmatizzato. Curiosamente, è stato preparato dagli incontri digitali, tra i balconi, i live set on line e l’effervescenza dei social network, in tutte le situazioni in cui la distanza fisica è stata compensata da collegamenti musicali e digitali, ai margini della produzione, nei sotterranei della politica. Questo ci mostra che la socialità è ferita, ma lungi dall’essere morta.

Lei ha parlato delle ferite emotive e sociali causate dalla pandemia. In un momento di deconfinamento e riacquisizione delle nostre libertà, quali postumi può lasciare il periodo che ci lasciamo alle spalle nelle nostre società?

Dal punto di vista sociologico e psicologico, avvertiamo ovunque una certa diffidenza verso gli altri. Quando incontriamo qualcuno che conosciamo per strada, ci sentiamo a disagio. L’immaginario dell’altro è talmente contaminato dalla pandemia che i gesti barriera diventano anche modi per ritirarsi in se stessi, per dimenticare le persone che ci circondano. La distanza sociale potrebbe così diventare una vera e propria malattia collettiva, più pericolosa del coronavirus perché in grado di orientarci verso forme di competizione e di conflitto che non abbiamo vissuto da molto tempo. Questo è il sogno segreto dei populisti e dei vari avatar del neoliberismo: mors tua, vita mea. Contro questi impulsi, dovremo necessariamente scommettere ancora una volta, anche a costo di correre dei rischi, sulla collaborazione, sulla comunità e sull’empatia.

Alcuni tuoi libri, come Les affinités connectives. Sociologia della cultura digitale (https://www.editionsducerf.fr/librairie/livre/17813/les-affinites-connectives) e Gioia Tragica. Le forme elementari della vita elettronica (https://www.lupetti.com/gioia-tragica.html ), esplorano il ruolo dei social network nel cambiamento culturale contemporaneo. È ancora rilevante in questo contesto? In un momento in cui il digitale sta diventando soprattutto la dimensione dello smart working, c’è ancora spazio per un’espressione libera, alternativa e gioiosa dell’esistenza?

La condizione digitale è oggi più che mai estremamente controversa. Dopo tre secoli di allenamento, ci immergiamo definitivamente nella mediatizzazione della nostra esistenza anticipata da pensatori come Marshall McLuhan, Gunter Anders, Alberto Abruzzese e Derrick de Kerckhove, laddove la nostra vita digitale precede ed eccede quella fisica. Questo non significa che ciò che ha a che fare con la carne e le ossa conti meno rispetto ai nostri schermi, ma che le nostre identità e le nostre relazioni sono modellate nei e dai media, anche da noi stessi divenuti media, carne elettronica. Le “affinità connettive” sono le connessioni che stabiliamo con gli altri al di là dello spazio, del tempo e delle più classiche cornici identitarie di stampo ideologico, sessuale, economico o politico. Sono trame che ci riuniscono attorno a passioni comuni, all’immaginario e allo stile di vita. D’altra parte, il web è sempre più uno spazio conflittuale dove si manifesta una lotta tra il principio della produzione e quello della festa, della dépense improduttiva e degli eccessi. Il pubblico di un tempo è diventato il centro e il vero attore di questo scenario. In un contesto segnato dalla crisi dell’umanesimo, in cui si cerca di ristabilire la priorità dell’individuo e della sua privacy perché si avverte e presente la sua obsolescenza, rimangono ancora dei margini affinché l’essere umano possa trovare un equilibrio organico con ciò che lo circonda – senza tentare di padroneggiarla di nuovo, solo per ricominciare a danzare. Persino a danzare sulle rovine.

Black Mirror

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