“Il tempo improponibile che passiamo (io, incluso) a reagire spontaneamente e senza riflessione alle sollecitazioni del nostro telefonino è segno di un corsa verso la robotizzazione dell’umano”. La tesi è di Derrick de Kerckhove, direttore scientifico di TuttiMedia e Media Duemila, che ha partecipato al convegno Decisione Robotica. Qui di seguito il testo di Antonio Punzi (Professore ordinario di Metodologia della Scienza Giuridica presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli) fra gli organizzatori del’’evento sotto il patrocinio dell’Accademia dei Lincei.
“Decisione Robotica è il 3° convegno linceo dei “Seminari Leibniz per la teoria e la logica del diritto”: dopo il calcolo predittivo delle decisioni future, dopo le decisioni che, stratificandosi nella storia, divengono vieppiù vincolanti, ecco la macchina che decide.
Tema ricco di fascino e che un po’ inquieta. Il motivo ci è oggi più chiaro: la macchina ci somiglia sempre di più. Convinti di essere soli, abbiamo invece scoperto di avere un prossimo; di più: un simile che noi stessi abbiamo creato. E verso il quale siamo mossi da sentimenti contrastanti, come contrastato è l’animo di Viktor Frankenstein quando, nell’opera di una giovanissima Mary Shelley, dialoga con la sua creatura al cospetto del Monte Bianco, prima di inoltrarsi verso le isole Orcadi.
Sentimenti contrastanti, dunque.
1. Da un lato l’ansia dell’uomo di perdere la propria primazia
Ansia che si veste di argomenti razionali: la macchina non sa decidere secondo valori, sacrifica il genio creativo sull’altare del freddo artificio. In sintesi: la tecnica conduce all’oblìo dell’essere, per dirla con il jargon filosofico.
Dietro tale rifiuto – qualunque sia la sua matrice: religiosa, speculativa, luddista – sembra invero nascondersi un atteggiamento ostile nei confronti della scienza e delle sue applicazioni tecniche
Una diffidenza da cui dovrebbe essere immune il giurista, consapevole che il paradigma macchinico può portare con sé crescita cognitiva, controllo dei procedimenti, appunto: calcolabilità delle decisioni
È scritto nella storia del diritto moderno: lo sforzo inteso a garantire la giustizia della decisione ha assunto la forma della proceduralizzazione – diciamo pure: della macchinalizzazione – del processo decisionale.
Oggi peraltro i nostri processi cognitivi sono a tal punto intrecciati a quelli delle macchine che viene da chiedersi: come può (se l’espressione non fa scandalo) la macchina umana, che ragiona e decide anche grazie a macchine, considerare queste come “estranee” e rifiutarne la prossimità?
Il vero è che l’ansia di perdere il primato ontologico è reazione di retroguardia, destinata ad essere travolta dal flusso della storia
2. C’è poi una reazione opposta, quella che vede nella macchina una via di salvezza dalla minaccia di un mondo ingovernabile perché divenuto troppo complesso
La complessità, com’è noto, ha sancito la definitiva perdita di alcune certezze del moderno:
– una scienza capace di guadagnare una rappresentazione unica e oggettiva della realtà;
– sistemi morali e politici fondati su una lettura omnicomprensiva della storia e pronti ad offrire risposte sicure a qualunque domanda di senso.
L’incertezza, peraltro, avvolge da tempo anche il mestiere del giurista.
Ben sappiamo come tale perdita di certezza sia stata già lucidamente anticipata, quasi quarant’anni or sono, ne “L’età della decodificazione” di Natalino Irti: con la crisi del sistema centrato sui codici, in un ordinamento dominato da leggi-provvedimento e da pronunce misurate sui casi concreti, cosa resta del valore della prevedibilità delle decisioni?
La tendenza si è poi accentuata: il diritto sovranazionale, le norme-principio, le interpretazioni costituzionalmente orientate, il diritto vivente, il soft law, le autorità indipendenti, e così via.
Districarsi nella complessità è per l’operatore del diritto un problema serio. Ed è comprensibile che – ecco la reazione opposta alla prima – qualcuno intraveda nel robot la via d’uscita dal labirinto, una sorta di kathékon che trattiene l’incertezza
E così si ha buon gioco ad immaginare un robot capace di ridurre al minimo i tempi della giustizia, di rendere le decisioni giudiziarie altamente prevedibili, fino a svolgere una funzione dissuasiva nei confronti dell’abuso del processo, per tacere dei vantaggi in termini di smaltimento del contenzioso pregresso.
Cosa osta all’adozione di un tale ideale di una giustizia amministrata da robot in modo equo, imparziale, prevedibile ed efficiente?
Tra le molte, possibili obiezioni, mi limito a richiamarne due.
Anzitutto: l’illuminismo sognava sì un giudice-macchina, ma non per rinunciare alla personalità del giudice, bensì per vincolarne il ragionamento e la decisione.
Emblematica la presentazione del Code Napoléon fatta da Portalis: anche il più geometrico dei codici richiede sempre l’esperienza e il senso di giustizia di un giudicante che, in relazione al caso concreto, utilizzi le arti e le tecniche dell’interpretazione. In sintesi: il giudice ragioni come una macchina, ma sia sempre pronto a far luce su ciò che essa non può vedere, faccia uso di quel jugement di cui ci ha parlato Derrick De Kerckhove.
Eppoi: è vero che la sentenza nell’era della complessità è divenuta altamente incerta, ma questa non è una prerogativa della decisione giudiziaria. Ogni decisione nell’era della complessità è per definizione, almeno in parte, im-prevedibile. Lo insegna l’odierna epistemologia: l’incertezza si è insediata nel cuore di ogni processo conoscitivo e decisionale
Ecco che il sogno di un giudicante-robot che decida autonomamente, a dispetto delle sue sembianze futuriste, sembra in realtà connotato da una tonalità nostalgica: la nostalgia di un mondo nel quale programmando le decisioni secondo protocolli rigorosi se ne poteva anticipare l’esito. Ma ormai non si può tornare indietro: dal principio di indeterminazione in poi, si è preso atto che l’incertezza fa parte dei nostri processi cognitivi e decisionali e non c’è macchina che possa costituire un farmaco rispetto a tale incertezza.
3. Ecco che, accantonate le due opposte reazioni al nuovo – il rifiuto e l’entusiasmo – appare forse più credibile una via ispirata all’idea della contaminazione tra uomo e robot.
In fondo: se è vero che oggi pensiamo anche grazie alle macchine, allora anche nel giudicare non possiamo prescinderne. Il che non significa rottamare l’umano giudicante. Bisogna piuttosto immaginare una feconda interazione tra uomo e macchina, grazie alla quale le nostre prestazioni cognitive vengano potenziate ed al contempo sorvegliate dalla capacità della macchina
– da un lato, di raccogliere e processare dati e di prospettare soluzioni,
– dall’altro, di monitorare il nostro percorso decisionale e motivazionale così da segnalarne lacune, incongruenze, contrasti rispetto a decisioni assunte in casi simili, e così via.
In un tale scenario la decisione non sarà ascrivibile né solo all’uomo né solo alla macchina. Certo, in ultima istanza l’ultima parola dovrà essere quella del giudicante che controlla l’intero procedimento, ne valuta l’esito, ne assume la responsabilità. Sul punto aderisco in pieno alla posizione rappresentata nel presente Convegno dal Consigliere della Corte di Cassazione De Stefano e dalla Presidente del Tribunale di Viterbo Covelli.
Per rendere l’idea – l’uditorio perdoni la banalità dell’esempio – pensiamo al modello della “guida assistita” nelle automobili, nel quale la macchina utilizza dispositivi di segnalazione e controllo rispetto alle operazioni compiute dal guidatore. Siamo sempre noi a condurre il veicolo e a prendere le decisioni, ma sulla base di informazioni che da soli non avremmo potuto raccogliere ed elaborare nei tempi richiesti.
Ecco: proviamo ad utilizzare il modello della “guida assistita” per la decisione giudiziale. Il giudice potrebbe anzitutto avvalersi dei dati normativi, giurisprudenziali e fattuali raccolti ed elaborati dalla macchina. Nella decisione di un caso semplice o seriale, potrebbe anche giungere velocemente alla decisione recependo la soluzione prospettata in modo automatico. La macchina potrebbe al limite suggerire dei modelli di motivazione adeguati al caso. In ogni caso, sull’accettabilità della decisione prospettata in modo automatico e soprattutto sulla motivazione da esibire, il giudicante dovrebbe in ogni caso esercitare un controllo. Un controllo forse celere, ma ineludibile
In un simile modello di interazione tra il naturale e l’artificiale, peraltro, una funzione di controllo dovrebbe essere esercitata dalla stessa macchina: ad esempio segnalando vincoli logici e/o procedurali da rispettare, rilevando vizi nell’iter motivazionale, prospettando soluzioni alternative, avvertendo dell’esistenza di precedenti in senso contrario, ecc.
Si può arrivare ad immaginare che l’intero processo decisionale si svolga in un ambiente digitale, così che il giudicante, sin dall’apertura del fascicolo, si muova in una sorta di percorso virtuale vincolato, in cui ad ogni passaggio egli sia chiamato a risolvere un problema o a fornire una risposta. E in un simile modello, la macchina potrebbe essere chiamata a svolgere la funzione non solo di velocissimo ed informato ausiliario del giudice, così da semplificarne notevolmente il processo decisionale, ma anche di vigile osservatore delle operazioni da questi compiute nell’intera formazione del giudizio. La macchina diventa così una sorta di alter ego del giudice, che gli chiede conto e gli fa prendere piena coscienza del modo in cui sta ragionando e decidendo
Così ripensato, il robot si toglie di dosso l’abito dell’estraneo che inquieta e viene respinto, somigliando piuttosto ad un novello Socrate che non si sostituisce né si impone al suo interlocutore, ma anzi svolge la funzione di “levatrice”, così aiutandolo a far uscire da sé, in relazione al caso concreto, la migliore decisione possibile.
Di certo vi è che, al cospetto di un sentiero in parte sconosciuto – quale è quello abitato da macchine capaci di ragionare e decidere – la saggezza induce non a ritrarsi per timore né ad inoltrarsi alla cieca, bensì a prendere la bussola, assumere il corretto orientamento ed iniziare ad esplorare”.