Dossier di MICHELE MEZZA e CARMELA ADINOLFI –

Operazione a cuore aperto, ancora in corso

Il panorama editoriale da almeno dieci anni mostra segni di maturità sia di prodotto che di processo. Una realtà questa che ci appare più evidente e identificabile oltreoceano, dove la crisi dei giornali ormai da almeno 5/6 anni sta dispiegando i suoi effetti schumpeteriani, nel senso che la distruzione creativa del processo innovativo è visibile in tutta la sua spettacolarità.
Infatti, a differenza che in Europa, la riorganizzazione innovativa degli assetti industriali è immediatamente visibile, anzi possiamo dire che sul mercato americano si risponde alla crisi riconfigurando radicalmente gli assetti industriali e professionali.
Prototipo di questo riflesso istintivo, di questa diversa opzione culturale, è la joint venture fra Newsweek e The Daily Beast, che abbiamo seguito, nell’ambito dell’Osservatorio mediasenzamediatori.org, collegato al corso dell’anno 2010/2011 della cattedra di Teoria e Tecnica dei Nuovi Media, del corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Perugia .
L’idea che ci ha guidato a monitorare fin dalle sue fasi iniziali questo processo riorganizzativo è stata quella di seguire un’operazione che aveva tutti i requisiti di un “affare pilota” del giornalismo mondiale.
Al centro del processo infatti c’erano una testata di assoluto prestigio del giornalismo internazionale quale è Newsweek, un prodotto innovativo e di grande successo quale il portale informativo Daily Beast, e, a cerniera fra le due realtà, una straordinaria figura di creatore di giornali come è Tina Brown.
Ci sono tutti gli elementi per un caso emblematico, diciamo un caso di alta clinica editoriale.
Una sala operatoria di un grandissimo ospedale, dove si può assistere, in diretta, come nelle aule universitarie americane di medicina, ad un intervento a cuore aperto.
In azione, come abbiamo detto, un grande luminare del giornalismo angloamericano: Tina Brown, considerata la regina Mida del mercato editoriale, colei in grado di trasformare la carta in oro.
L’intervento si è concluso, clinicamente, nell’aprile scorso, e presenta tutte le caratteristiche di un prototipo esportabile a livello globale.
Il malato è ancora in convalescenza e forse la cura sarà ancora lunga e potrebbe non concludersi con un successo. Del resto chi non ricorda il primo intervento di trapianto cardiaco del dottore sudafricano Christian Bernard. Dopo molte peripezie il paziente non superò la lunga fase post operatoria. Ma la strada era tracciata.
La fusione fra le due testate rimane al momento la più avanzata strategia di studio che, nell’attuale contesto editoriale, appare come l’unico plausibile tentativo di rispondere alla torsione del mercato imposta dalla Rete.
Comunque vada l’esperimento, in questa sede cogliamo l’aspetto emblematico, di provocazione intellettuale, che il progetto ci propone, lavorando sull’interessante opportunità di studio, che vediamo in atto, e che ci ha permesso di familiarizzare con le problematiche che sorgono quando si deve riorganizzare una redazione attorno ad un server e non più attorno al direttore.
Problemi di natura tecnologica, culturale, psicologica, persino di governance.
L’ambizione di Tina Brown ci aiuta a comprendere meccanismi, effetti, e anche controindicazioni di una nuova procedura, evocata da tempo ma mai applicata concretamente in una scala significativa nel mercato delle news.
L’oggetto di cui stiamo evocando il valore è un sistema in cui devono convivere due diversi, e per certi versi, ancora antitetici, approcci alla notizia: il primo, frutto di un’esperienza di circa due secoli, dove il giornalista è il titolare esclusivo del disvelamento dell’informazione, che nasce come riservata; mentre un secondo indirizzo afferma la centralità della relazione fra produttore e utente nella nuova meccanica multimediale.
Si delinea così un’entità a doppia velocità, dove si trovano ad operare figure e soggetti fino ad oggi esclusi dal perimetro aziendale – pensiamo all’esperto di marketing virale, o all’orchestratore di comunità in social network – che si contaminano reciprocamente.
L’obiettivo è quello di produrre, ottimizzando una risorsa ancora indefinita nei suoi format industriali, quale è la partecipazione produttiva degli utenti, l’uso intensivo dell’attenzione dei propri lettori come turbina produttiva che incrementa la potenza del sistema limitandone i costi.
Conseguendo questo obiettivo, automaticamente – questa è la scommessa al centro del progetto di Newsweek, sull’esempio di quella straordinaria macchina da soldi che si è rivelato l’Huffington Post – si riuscirebbe ad agganciare al giornale una moltitudine di nuovi utenti, consolidando le tradizionali clientele.
In sostanza, questo è il nocciolo economico dell’operazione, mutando il modello organizzativo, si modulerebbero nuovi linguaggi e contenuti, tali da dare al giornale una più robusta area di consenso e consumo.
L’acrobazia, come vedremo, è davvero complessa e difficile nella sua riuscita. Ma, come spiegava Alessandro Magno ai suoi generali che, in vista dell’Hindu Kush lo pregavano di fermarsi nella corsa all’infinito e di tornare indietro, dove un gigantesco impero lo attendeva, “siamo in un mondo oggi dove se non procediamo nella nostra azione non riusciremo nemmeno a tornare indietro perché non ci perdonerebbero la rinuncia”. Il management di Newsweek ha conosciuto il suo Hindu Kush e ha maturato l’idea che di fronte ad un inesorabile declino, l’unica strada che si profilasse era quella di puntare tutto su un’innovazione di contenuto che fosse il risultato e non l’origine di un’innovazione di processo. Qui, nella relazione fra forma e contenuto, fra linguaggio e tecnologia, fra software e letteratura, sta il vero valore aggiunto dell’opportunità digitale.
Il punto è capire come i moderni linguaggi digitali come i link, l’ipertestualità, la connessione multimediale e il remix, possano contenere una doppia anima, dove vecchio e nuovo, passivo e attivo, ricettività e interazione, siano fattori abilitanti di linguaggi e prodotti editoriali adeguati ad una domanda di un mercato dove i cosiddetti nativi digitali cominciano a diventare massa critica.
In questo caso Newsweek è stato, a nostro avviso, un tema di studio emblematico che ha reso evidente quel principio base che sta guidando prodigi industriali e commerciali come la nascita di Facebook, il cui padre Mark Zuckerberg, ha insistito nel definire la sua creatura un fenomeno sociale, prima che tecnologico.
Esattamente quello che intendeva, in tutt’altro contesto, Dewey, quando sosteneva che il prodotto informazione deve essere contestualizzato all’interno di una relazione cooperativa fra giornalista e lettore. Ovviamente il filosofo americano non aveva la minima idea delle conseguenza che questa relazione sta comportando sulle impalcature industriali del mercato della comunicazione.
Fatta questa premessa sul perché abbiamo considerato l’aggregazione fra Newsweek-The Daily Beast un caso emblematico dell’editoria mondiale, cerchiamo di capirne i connotati e soprattutto i risultati.

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La cartella clinica del paziente

Quando nel 2010 Newsweek è stato rilevato per la simbolica cifra di un dollaro dal magnate americano Sidney Harman, la diffusione del magazine era in caduta verticale. Nell’ultimo anno della sua gestione tradizionale, le vendite, fra edicola e abbonamenti, erano crollate dai 2.309.416 della media del 2009, ai 1.578.691 degli ultimi tre mesi prima della fusione.
I dati raggelanti non ammettevano illusioni: tra il 2007 e il 2009 il settimanale aveva perso circa il 40% alla voce entrate, era stato avviato un piano di licenziamenti progressivo, avente come obiettivo il dimezzamento dell’organico. Ogni mese il gruppo del Washington Post, proprietario della gloriosa testata fino al 2007 doveva supportare il bilancio di Newsweek con un versamento di non meno 500.000 di dollari al mese per coprire le perdite. Un tributo insostenibile, che non era certo diminuito con l’intervento del nuovo socio di riferimento, il gruppo Harman, che per questo gioca la carta più drastica, affidarsi al Web. Tanto più in un contesto che segna una caduta verticale di tutti i fatturati cartacei.
Basta ricordare che: nel periodo fra il febbraio 2004 e il febbraio 2009 società come la New York Times Company e la Tribune Company (proprietaria del Chicago Tribune e del Los Angeles Times) hanno perso tra l’80 e il 90% del loro valore di borsa (vedi The State of News Media 2010). Il numero dei giornalisti americani fra il 2000 e il 2009 è passato da 56.000 circa a meno di 40.000. Tra il 2004 e il 2009 i quotidiani hanno perso il 50% del fatturato pubblicitario. Nello stesso periodo il numero di copie vendute si è pressoché dimezzato. Negli ultimi cinque anni a fare le spese della falcidia editoriale sono state soprattutto le pagine di cronaca nazionale ed internazionale, rispetto a quelle di cronaca locale rimaste sostanzialmente immutate. Come si ricava dalla lettura delle due tabelle che pubblichiamo di seguito, se si fa eccezione per il Wall Street Journal, che si trova nell’invidiabile situazione di godere di un trend anti ciclico per la sua specificità editoriale, in un clima di grandi turbolenze finanziarie, il resto delle testate vede peggiorare sensibilmente i dati della propria vendita in edicola, mentre le uniche, seppur lievi, consolazioni vengono dagli indici di frequentazione dei siti web.

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Una crisi quella di Newsweek che è dunque solo un segnale di un trend complessivo, ma non per questo meno grave. Tanto più che il pesante logoramento dell’appeal della testata non era certo addebitabile ad una caduta di qualità del prodotto, né ad una sua obsolescenza di formato. Newsweek, a detta di tutti gli esperti, rimaneva ancora uno dei meglio accreditati magazine sulla scena internazionale e il suo formato è assolutamente in linea con gli standard considerati sostenibili ed efficaci. Tanto più che, come conferma lo scenario che abbiamo tratteggiato prima con i dati di mercato dei gruppi più rilevanti, la parabola discendente di Newsweek è analoga a quella dei sui principali concorrenti. È un intero comparto che benché esprima il meglio del mercato internazionale comincia ad ansimare.
Il punto critico riguarda allora più che la forma il contenuto.
È proprio l’idea editoriale di fondo che non riesce più a funzionare, un’idea che per 309 anni si è basata sul fatto che un settimanale, di taglio globale, fortemente radicato nel mondo americano, parlando di America parlava automaticamente al mondo. Ed insieme al suo linguaggio si inceppa anche il suo modello produttivo, che era strettamente connesso al progetto editoriale costitutivo.
È ancora possibile usare l’America come esperanto geopolitico del mondo?
Ed è ancora possibile informare le élites globali sulla scorta di un know how tutto interno alla comunità redazione?
Questi sono i quesiti che si profilano sullo scenario editoriale mondiale, e che sollecitano riflessioni radicali, soprattutto a quel settore dell’editoria americana che fino ad oggi aveva goduto di una rendita di posizione assoluta. La complessità, e la frammentazione, del pianeta dal punto di vista politico, economico e culturale, non ammette più di essere semplificata attraverso un’unica lente di ingrandimento, quale è stato il mondo anglosassone fino ad oggi.
Questo vale per l’informazione, ma comincia ad essere avvertito anche nelle cattedrali cinematografiche e dell’immaginario complessivo americano.
Dall’altra parte, si delinea una mutazione copernicana anche sul versante dell’utenza, che sempre meno tende ad identificarsi con fisionomie e caratteristiche massificate. Come spiega spietatamente nel suo saggio La coda lunga (Codice Edizioni, Torino, 2007), Chris Anderson “l’era del one-size-fit-all è al capolinea, rimpiazzata da qualcosa di nuovo: un mercato di moltitudini”. Un mercato, insiste Anderson, dove “la cultura sincronizzata è l’eccezione”. Un’eccezione che non consente più di distribuire informazione globale al mondo da una singola postazione geo-culturale, o da un unico punto di vista, come la propria redazione.
La differenziazione diventa un valore, e nella comunicazione diventa una pretesa la disponibilità di una specifica informazione, personalizzata nel tema, nel momento, e nelle modalità di fruizione che sono utili ad ogni singolo utente.
Nel mercato dell’abbondanza informativa il bastone di comando è di chi ascolta, non di chi parla.
Esattamente ciò che i giornalisti, soprattutto quelli di Newsweek, hanno predicato per almeno un quindicennio agli addetti di tutti i settori industriali dell’occidente: bisogna cambiare, il futuro batte alle vostre porte.
Ora il futuro ha trovato anche l’indirizzo dei giornalisti. E degli editori, compresi quelli di Newsweek.
Il combinato disposto di queste due trasformazioni hanno stretto il magazine americano in una situazione davvero difficile. Soprattutto perché il precipitare delle entrate, pubblicitarie e commerciali, ha reso insostenibile una redazione che per quantità e articolazione non aveva eguali.
La macchina editoriale di Newsweek, nei momenti del suo massimo fulgore, durati fino a tutto il 2005, era arrivata a contare più di 160 giornalisti, più un’aureola di collaboratori forte di più di 300 firme a borderò. A supporto di quest’esercito, almeno altri 200 fra impiegati, tecnici e documentalisti.
Un apparato poderoso, con un’economia di scala spietata. Infatti da quando, proprio nel 2005 (Fig. 1), comincia l’inesorabile declino delle vendite e soprattutto della pubblicità (meno 18% nel 2010 sull’anno precedente), il castello si affloscia.

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Siamo dunque di fronte ad una crisi di maturità di un prodotto, il magazine di informazione globale di matrice angloamericana, e ad un’efficacia del suo modo di produzione.
Newsweek comincia a rotolare lungo le pendici di affannosi piani di risanamento congiunturali. Fino alla crisi finale, del 2010, quando, come abbiamo detto, viene ceduto, con tutta la sua montagna di debiti, per un dollaro al magnate Sidney Harman.
Gli addetti ai lavori pensano si tratti di un approdo sicuro. Soldi e ambizioni non mancano e il magazine non ha più l’acqua alla gola.
Ma invece Harman vuole fare l’editore e non il mecenate. E non considera neanche la prospettiva di rimetterci almeno 5 milioni di dollari all’anno per far sventolare la gloriosa testata sul mercato globale.
Già alla fine di novembre dello stesso anno, di fronte ad un’analisi spietata delle condizioni, e soprattutto delle prospettive della testata, Harman e il suo staff decidono il colpo di teatro: si avviano le trattative della fusione con The Daily Beast, il sito diretto da Tina Brown dal 2008.
Nel febbraio del 2011 viene varato il nuovo gruppo editoriale Newsweek-The Daily Beast Company, con direttore unico, la stessa Tina Brown. Si certifica così che il driver dell’operazione è il sito e non il magazine.
Il 6 marzo dello stesso anno esce il primo numero del rinnovato Newsweek digitale che ha per culla la versione iPad.
Il neonato, in edicola, presenta subito la sua carta d’identità: 82 pagine, nuove sezioni di articoli e inchieste monografiche, fotogallery, una sezione portante denominata Newsbeast, di 30 pagine, che rimanda per gli aggiornamenti quotidiani al sito web.
Più che il corpo è l’anima del nuovo venuto, a distinguerlo: il Web ne è la vera fucina, e il remix, ossia la rielaborazione di contenuti pescati in Rete, il nuovo linguaggio.
Da quel momento, tutti i cannocchiali di analisti, consulenti e manager editoriali sono puntati sulla sala operatoria da cui, nel febbraio del 2011, viene dimesso il paziente con un cuore nuovo, anzi con due centri pulsanti: un server e un desk centrale.
Il convalescente paziente comincia a muovere i suoi primi passi sul mercato globale.
Presenta subito due caratteristiche di assoluta originalità.
Entrambe richiamano l’interesse di chi si trova alle prese con bilanci e business plan di aziende editoriali che non riescono più a quadrare.

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Frankestain o Avatar?

Il primo motivo di richiamo riguarda l’integrazione nello stesso corpo di due macchine giornalistiche che, seppur in tempi e con modalità molto diverse fra loro, rivestivano un grande valore e pregio agli occhi del pubblico. Diciamo due organi che separatamente avevano assicurato grandi performance e che integrati rischiavano di perdere la loro competitività.
Il secondo elemento che attira l’attenzione della concorrenza riguarda l’approccio e la modalità terapeutica con le quali sono stati ibridati modelli professionali e strutture tecnologiche molto diverse e, per non pochi aspetti, divergenti fra loro.
Come vedremo di seguito sarà la composizione della redazione, sia nella sua dimensione quantitativa che in quella qualitativa a rappresentare l’aspetto emblematico dell’intera trasformazione: in sostanza si vuole capire con quanti redattori e di che profilo si realizza il tutto.
L’esperimento comunque vada, è destinato, proprio per le novità che introduce nella fabbrica redazionale, a diventare un format di riferimento per chiunque dovrà avventurarsi sulla stessa strada. Diciamo che è un salto nell’evoluzione della specie.
Anticipiamo qui il dato sintetico sulla redazione, analizzando successivamente le caratteristiche più di dettaglio: nel 2006, prima della crisi finale, la redazione era forte di 155 giornalisti, alla vigilia della fusione ne erano rimasti 122, all’avvio del nuovo progetto se ne contavano 78, ma il numero è ulteriormente diminuito per un esodo continuo che la direzione non cerca minimamente di arginare.
Siamo alle prese con un cambio genetico. Il dilemma è se siamo dinanzi ad un mostro incontrollabile, come Frankestain, o ad un essere umano a capacità aumentate, come Avatar?
L’oggetto che è stato al centro del processo di riorganizzazione del nuovo gruppo editoriale si identifica con il cuore del problema che oggi sta dinanzi ad ogni soggetto che opera nel campo dell’informazione periodica, sia esso un singolo professionista, che un’impresa complessa: come si può generare valore e ritrovare value proposition strategica per la testata, riorganizzando una redazione, o la propria professionalità, attorno ad un server ed un database?
Questo oggi è il tema su cui si gioca il futuro del mestiere di giornalista e dell’impresa editoriale: Hic Rhodus, hic salta.
Come si può, in sostanza, ottimizzare la potenza di calcolo che la Rete rende disponibile sotto forma di algoritmi in grado di governare l’abbondanza di contenuti e di saperi diffusi nel network, ai fini di una riconfigurazione del modello d’impresa, a partire dai profili professionali delle figure cardini del processo, a partire dagli stessi giornalisti.
Questo è il nodo strategico che abbiamo dinanzi. Con un addentellato che rende ancora più complesso e problematico l’obiettivo di rimanere all’interno del tradizionale perimetro aziendale: la necessità, ormai indifferibile per ogni struttura giornalistica ambiziosa, di acquisire e arricchire la propria capacità di produzione di notizie e commenti grazie alla complicità dei propri utenti. Come, in sintesi, il giornale diventa social network.

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Il Murdoch Switch

Sul piano pratico, in primo luogo, la terapia adottata per curare il nostro paziente ha comportato uno sconvolgimento radicale della redazione tradizionale. La cura adottata prevedeva di riorganizzare la redazione di Newsweek attorno al server del Daily Beast.
Il principale farmaco utilizzato è stata la velocità.
Praticando la ricetta di Paul Viriliò, il dromologo francese che ha riletto, alla luce dell’istantaneità del pensiero, McLuhan, secondo la quale “è la velocità ad essere il messaggio”, ossia è la capacità di reagire in real time il nuovo valore dell’informazione.
Tina Brown ha iniziato la rianimazione del paziente connettendo il potente e accreditato archivio di Newsweek, al motore di ricerca e selezione semantico di Daily Beast, per cominciare a generare valore, offrendo opportunità di approfondimento e di selezione agli utenti, che sulla base degli impulsi ricevuti dai flussi dei blog, cercavano un’ulteriore rielaborazione dell’informazione: potenza di memoria (server ed archivio) più potenza del marchio hanno così dato vita ad un nuovo prodotto semantico dalle potenzialità infinite, capace di generare servizi e contenitori diversificati. Il giornale iniziava a diventare un broker di nuove utility, che andavano oltre la semplice vendita del settimanale.
La terapia procedeva in uno scenario turbolento, dove continuamente si annunciavano nuovi farmaci e nuovi centri clinici.
Progetti simili a quello elaborato dalla Brown, e dai risultati altrettanto significativi, sono l’esperienza di Bakotopia.com e del The Huffington Post. Bakotopia.com, segnala una tendenza che sta orientando grandi realtà editoriali, come ad esempio lo stesso Murdoch: il giornale come centro servizi per l’utente finale, di cui la notizia è solo uno dei prodotti proposti.
Bakotopia.com infatti inizia come un piccolo sito di pubblicità gratuita, nato per gemmazione dal quotidiano Bakersfield Californian, che rappresenta la risposta dei vertici di questa testata alla minaccia che incombeva per l’allungarsi dell’ombra di quella gigantesca multiutility individuale che è il gruppo Craigslist, che ingoia ogni risorsa pubblicitaria presente sul territorio. Grazie alla famiglia di siti indotti da Bakotopia, il giornale californiano ha potuto difendere la sua fetta di mercato, riuscendo a finanziarie con le risorse dei servizi generati sul Web la pubblicazione del giornale cartaceo.
Che qualcosa di rilevante stava mutando nella fisionomia dei gruppi editoriali lo confermava poi, in un’economia di scala ancora più estesa, l’operazione attuata da AOL con l’acquisto del blog dell’Huffington Post: i 300 milioni di dollari spesi dall’Internet service provider per acquisire il primo blog al mondo per visitatori unici, testimonia l’efficienza del meccanismo «news in rete», del progressivo vantaggio che piccole realtà giornalistiche stanno acquisendo a scapito di grandi testate e l’interesse dei colossi editoriali ad assicurarsi queste realtà, la cui fortuna è garantita, come nel caso dell’Huffington, dal fatto di essere un sito aggregatore di notizie dove, quantitativamente parlando, conta il traffico generato dagli articoli. E dimostra che oggi i service provider non possono presidiare la propria quota di mercato senza risalire, come salmoni, la catena del valore editoriale, diventando essi stessi editori. Questa è forse la notizia più allarmante per il mondo editoriale: si annunciano nuovi visitors nel mercato. Chi produce servizi produrrà contenuti, e chi produceva solo contenuti dovrà, necessariamente, produrre servizi. È questo il cosiddetto Murdoch Switch.
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Lo tsunami in redazione

Arriviamo al tema più caldo dell’intera operazione: la struttura redazionale.
Qui si gioca la partita decisiva del sistema editoriale. Rispetto ad altri settori produttivi, l’editoria infatti prevede uno stato di simbiosi, di stretta relazione fra la componente aziendale e i suoi dipendenti giornalisti, che, anche legalmente, a norma della lettera contrattuale e dello spirito della legge costitutiva dell’ordine, sono coproduttori, se non proprio co-titolari, dell’offerta editoriale.
Negli Usa, come è fin troppo noto, questa lettera contrattuale è meno vincolante, e, in gran parte, del tutto marginale. Ma il problema sostanziale, quale forma di coinvolgimento realizzare nei nuovi processi, non muta di granché.
Il punto è infatti come trasportare nel nuovo ambiente digitale formule e procedure che per un secolo e mezzo hanno reso il prodotto giornale una cultura e non una merce.
Dall’altro lato, si pone, come abbiamo visto per le cifre che entrano in gioco, il problema di rendere sostenibile e competitiva l’impresa di produrre sistemi informativi, per ogni qualsivoglia sistema utente.
Gira e rigira si torna dunque al più classico dei temi di ogni ristrutturazione aziendale: quale equilibrio fra la redditività dell’investimento, la realizzazione dei nuovi prodotti digitali, e il ruolo della componente professionale, sia nella fase produttiva, ma anche in quella ideativa del nuovo cantiere.
Archiviata la fase finanziaria, con la condivisione dei nuovi assetti e ruoli dirigenti, Tina Brown, con il titolo di direttore editoriale si dedica a dare forma alla nuova redazione.
Intanto l’idea di creare un’unica struttura redazionale, già di per sé dà il timbro dell’operazione: si sta ideando un nuovo sistema editoriale che non sarà riconducibile a nessuno dei due elementi originari.
Si tratta infatti di allestire un apparato giornalistico che lavorerà su due dimensione temporali (real time e selezione settimanale), con due linguaggi (l’istantanea fotografia della notizia e l’approfondimento letterario), con due target di riferimento (l’utente del flusso momentaneo e il lettore di paper d’approfondimento), ma con un unico modello professionale, basato sull’uso del Web come prima fonte globale.
Si tratta dunque di configurare una nuova comunità professionale, sia nel numero che nelle competenze.
Invece che insistere su un piano di licenziamenti avviato precedentemente dalla vecchia proprietà, per ridurre i costi unitari, si sceglie di percorrere una strada più complicata, che ha come obiettivo l’integrazione delle due realtà professionali, mettendo uno accanto all’altro i collaudati giornalisti d’inchiesta di Newsweek, con i news jockey, i navigatori in Rete, del Daily Beast.
Si è mirato così a salvaguardare il principio della differenziazione dei contenuti e dei linguaggi, cercando di soddisfare le esigenze di un pubblico composito dove ancora pesa la componente più tradizionale, che si rivolge al settimanale; accanto ad una presenza emergente di utenti più giovani ed esigenti, che pretendono di interagire con le fonti editoriali proprio per rendere il contenuto più aderente alle proprie necessità individuali. Un pubblico che si incontra su piattaforma e con soluzioni sempre più differenziate.
Concretamente la Brown ha disegnato un modello di flow working, basato su una matrice, la notizia o l’approfondimento realizzato esclusivamente dalla redazione, che viene impaginato nel flusso di contenuti, servizi e informazioni selezionati e combinati sulla base delle ricerche on line.
L’obiettivo è quello di ridurre di gran parte l’attività ed i costi relativi alla ricerca e l’impaginazione di contenuti di routine (rubriche, informazioni spicciole, schede di documentazione), lasciando la redazione libera di concentrarsi sul valore aggiunto del giornale.
Il risultato è che il giornalista si spoglia della posizione privilegiata di detentore esclusivo dell’informazione, diventando validatore, e non più disvelatore, della notizia che, di regola, è estrapolata e ridistribuita lungo il flusso di rete.
La redazione più che una fabbrica che lavora su una propria, esclusiva, materia prima, si configura come un hub multimediale di raccordo fra le notizie, gli aggiornamenti, gli approfondimenti e le diverse tipologie di utenti.
In sintesi vediamo che la struttura allestita nella redazione del nuovo gruppo si delinea più o meno secondo questa catena del valore. Il giornalista che, sulla base delle priorità redazionali, seleziona temi e flussi informativi. Su questa base, reporter e rewriters elaborano testi che vengono pubblicati on line. I blogger orchestrano il rimbalzo nelle diverse comunità di social network dei contenuti originali, attivando attenzione e commenti. I web editor accumulano link e richiamo, accrescendo il corredo documentale del singolo articolo.
Per la versione cartacea, il materiale viene integrato da contributi esclusivi di collaboratori o di firme della testata.
Sul sito una sezione di web editor lavora raccogliendo materiali convergenti con le cover story che usciranno sul settimanale, in modo da predisporre i contesti in Rete per rilanciare poi i contenuti esclusivi in contemporanea alla pubblicazione del magazine.
Fondamentale è la sezione Cheat Sheet, che intercetta i pareri e i gradimenti degli utenti organizzando i contenuti in base ai click, gli equivalenti di I like di Facebook.
Ovviamente questa trasformazione organizzativa non poteva prescindere da un adattamento della struttura redazionale. In questi mesi il turn over è stato intenso, e si calcola che circa il 60% dei quadri intermedi del giornale siano cambiati.
Come ci conferma nel suo contributo Anna Masera, responsabile del sito web de La Stampa di Torino, in questo contesto la figura del giornalista non scompare ma subisce una torsione nel bagaglio delle competenze e nelle funzioni di snodo. Si scompone in un caleidoscopio di ruoli e saperi la vecchia figura del redattore da desk, che sempre più diventa un creatore di sistema e uno sviluppatore di soluzioni software.
Dall’altra parte quello che una volta era considerato il redattore esperto, capace, o il rubrichista in grado di acquisire al giornale competenze e collaborazioni specializzate, diventa ora un gestore di motori di ricerca e un navigatore ipertestuale. È chiaro che, per le esigenze di velocità di cui abbiamo detto sopra, e per il parallelismo operativo che si rende indispensabile nella nuova produzione multimediale, gerarchie e organizzazioni tendono sempre più ad orizzontalizzarsi, penalizzando i vecchi controllori e garanti che innervavano la struttura gestionale delle testate tradizionali.
Proviamo ora a dare uno sguardo allo stanzone della redazione diretta da Tina Brown per capire come è professionalmente articolata.
Il colpo d’occhio inquadra subito il News Gathering, il centro motore del sistema, dove 24 ore su 24 si scannerizza la Rete intesa come super fonte.
Al desk si impone come cardine la figura del Crowdsources Journalist, ossia del giornalista che lavora “leggendo” la Rete, che si immerge nei social network e ricava dal brusio di fondo informazioni, tendenze e curiosità preziose per rendere le notizie del giornale sempre più pertinenti alla sensibilità della Rete.
Una nuova dimensione di un mestiere che la retorica vuole che si eserciti consumando suole di scarpe. Invece ora si tratta di consumare bit e di attirare l’attenzione di utenti che devono sia valorizzare i contenuti, cliccandoci sopra, sia incrementandone il valore con continue integrazioni e correzioni.
Si compongono così nuove funzioni, nuovi ruoli, nuove gerarchie.
Nell’open space redazionale, accanto alle sezioni tematiche che sembrano sempre più circoli di combattenti e reduci, ci si imbatte in figure di confine, come, ad esempio, l’headline optimizer che si deve occupare del design dei titoli, la cui efficacia deve indurre il maggior numero possibile di visualizzazioni della pagina web relativa.
Accanto al disegnatore dei titoli lavorano almeno quattro Social Media Reporter, che setacciano i forum e le chat delle community per ricavare input o saggiare l’attendibilità delle fonti virtuali.
Nel gruppo lavorano anche due Story Scientist che, insieme ai Data Detective, fanno il cosiddetto data mining, un’analisi di dati di flusso che affiorano dalla Rete, dati che devono essere giustificati e verificati per poter reggere una storia, scientifica o di cronaca.
Il loro lavoro è completato dagli Explanatory Journalist, che devono colmare i buchi rimasti insoluti negli articoli e nelle storie. Buchi di documentazione, di riferimenti, di citazioni, che vengono gradualmente colmati grazie ad una padronanza delle risorse di Rete.
Sul versante opposto, ossia nell’area output, che confeziona il prodotto finale, lavorano i Viral Journalist, che devono migliorare continuamente la visibilità e la pervasività dei contenuti della testata in Rete.
Fondamentale è poi il ruolo degli Slide Show Specialist, giornalisti che cadenzano contenuti, emozioni, commenti, con il linguaggio delle immagini, selezionando, montando, riconfigurando, fotografia e filmati, per vestire la pagina e dare ad ogni singolo articolo una grande forza visiva.
Di seguito troviamo gli iPad Creator, che adattano la pagina alle diverse piattaforme di destinazione come appunto gli iPad, i diversi smartphone o altri tablet. È questa una funzione strategica sia per estendere il mercato, che per valorizzare il carico pubblicitario.
Come abbiamo riportato nella citazione iniziale, per Tina Brown la scommessa del nuovo Newsweek si gioca sulla possibilità di comporre, di “sposare”, appunto, la tradizionale fisionomia del giornalista scrittore, con le nuove funzioni del giornalista ingegnere, informatico, sociologo, animatore e via di questo passo.
Il concetto chiave di questa operazione, come già detto, è stata infatti «complementarietà integrata»: unire il meglio del giornalismo tradizionale con il modello delle news in Rete, ibridare capacità di approfondimento e velocità di pubblicazione, attendibilità delle fonti e collaborazione con gli utenti, al fine di colmare i vuoti e le incongruenze dei due mondi, e rispondere ad una domanda sempre più ambiziosa e consapevole.

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Libri e computer si parlano?

La nostra incursione nella redazione di Newsweek ci ha fatto capire quale sia la direzione assunta dalla direzione, e anche percepire un’aria problematica, se non proprio pessimista, che circonda l’esperimento.
Come è ormai noto, l’aura che circondava la figura di Tina Brown non basta a salvaguardarla dagli spifferi che in redazione si stanno trasformando in veri uragani.
Il convoglio non sembra lanciato, e le vittime del nuovo corso non perdono tempo a prendersi le proprie rivincite.
Intendiamoci, siamo dinanzi ad un progetto che si è già dimostrato tanto ineludibile quanto complesso. Fin dalla prima grande fusione fra AOL e Time Warner, dieci anni fa, conclusasi con un altrettanto clamoroso divorzio, la contaminazione fra un libro e un computer, come è stata definita l’integrazione fra la tecnologia di rete e i contenuti audiovisivi, non pare riuscire facilmente.
Si tratta di smembrare la materia prima più instabile e delicata, come è una comunità di donne e uomini che considerano naturale e incontrovertibile il proprio primato nella raccolta e distribuzione delle informazioni. Viceversa, il nuovo ambiente digitale rende insostenibile mantenere la centralità del mestiere tradizionale del giornalista. Troppi contenuti, troppe richieste differenziate, troppa velocità. Siamo ad un salto di paradigma, come abbiamo ripetuto più volte, ma non è detto che i primi tentativi siano quelli più efficaci. E non per questo non si deve tentare.
Come abbiamo potuto intendere subodorando il processo organizzativo del nuovo Newsweek, non è stato semplice riorganizzare una macchina produttiva che deve parlare con piattaforme, formati e figure sempre più segmentate. Né è facile sintetizzare le culture professionali, le psicologie, gli istinti, le abitudini, di due realtà che non solo avevano codici e modelli autonomi, oltre che prestigiosi, separatamente, ma che appartenevano a mondi e antropologie assolutamente estranei gli uni agli altri.
I problemi sono apparsi tanto in fase produttiva, quanto in fase distributiva. Infatti, oltre a fronteggiare a priori il problema dei licenziamenti e delle perdite, a pochi mesi dal rilancio, come riportato dal monitoraggio di Adweek, la bibbia delle ristrutturazioni delle imprese editoriali con il suo potente database che documenta gli andamenti sul mercato di tutte le testate americane (www.adweek.com ), la cordata capeggiata dalla Brown sembra non aver preso il volo, inchiodata ancora a terra da difficoltà gestionali e di formato.
Un segnale che faceva intuire la problematicità del progetto era venuto dalla stessa Tina Brown, che a poche settimane dal varo dichiarava «credo che l’unione fra Newsweek e The Daily Beast comincerà a dare i suoi frutti tra due, tre anni». Tre anni è un periodo che mal si concilia con un processo di riorganizzazione basato sulla velocità e la condivisione in Rete. Le fasi di contaminazione digitale sono molto più rapide, nel bene e nel male, e i progetti multimediali hanno il pregio di far comprendere subito il loro trend.
Comunque la guerra delle cifre non manca a rendere il tutto più confuso. Gli editori di Newsweek annunciano un primo bilancio tutto in rosa. A sei mesi dall’avvio, si parla di un aumento del 57% nelle vendite del magazine, un incremento del 300% dell’advertisement sul Daily Beast e 9 milioni di visitatori unici, con un aumento del traffico unitario di oltre il 51%.
Sul versante opposto i fuoriusciti dalla testata sbandierano i dati ricavati da Adweek: 20 milioni di dollari persi dal magazine e 10 dal Beast, dall’inizio della gestione Brown.
Una mazzata che, oltre ad eguagliare la cifra persa dal solo Newsweek nel 2009, aggiunta alla trasmigrazione di organico, mette in seria difficoltà la stessa gestione.
Ma la proprietà non demorde. A smentire Adweek, è stato il CEO del progetto editoriale, Stephen Colvin, il quale in un’intervista all’Atlantic Wire ha dichiarato che «in soli sei mesi, contro ogni previsione, abbiamo migliorato le prestazioni di Newsweek, i numeri che Adweek cita sono falsi». I numeri ricavati dai report trimestrali continuano a volgere al brutto: si calcola un -8% per gli abbonamenti, con 1,4 milioni di lettori in meno. Il ricavo totale del Beast ammonta a 8 milioni di dollari, mentre il traffico di visitatori unici al mese è stimato in 2,6 milioni di unità. A tutto ciò si somma anche il problema di una flessione delle entrate pubblicitarie.
A fronte del ping pong dei numeri, appare innegabile il disagio redazionale: in una sola giornata, riporta l’Huffington Post, la Brown ha visto sul suo tavolo le dimissioni dell’editore capo Ray Chelstowski, del caporedattore Tom Weber e, infine, a gettare la spugna è stato anche lo stesso direttore esecutivo Edward Felsenthal, che pure aveva spalleggiato all’inizio tutte le ambizioni della Direttora. E questo solo per rimanere ai piani alti della redazione. Mentre sono decine i giornalisti di produzione che si sono cercati un altro posto.

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Nell’editoria il nuovo business è ancora un business?

La Brown non smentisce la sua fama di donna di ferro, e non sembra intenzionata a lanciare la spugna. Tutt’altro.
Interpretando alla perfezione lo spirito della Rete, che prevede una reazione a catena di applicazioni e soluzioni, fino a quando non si azzecca la formula vincente. La storia dei grandi miti digitali, da Bill Gates a Steve Jobs, insegna che la Rete è un laboratorio dove vige lo slogan: di sconfitta in sconfitta, fino alla vittoria.
La frammentazione delle nicchie d’utenza spiega che ogni proposta deve essere sempre miniaturizzata, fino ad aderire con il bacino di fruizione più naturale.
Ovviamente tutto questo deve comportare una dimensione e un costo assolutamente sostenibili, che permettano di essere prolungati senza implicare gravi affanni. Bassi costi e diverse soluzioni, sembra la formula vincente, per trovare la pietra filosofale.
La regina Mida del giornalismo la interpreta a modo suo, e fino ad ora appare molto determinata nella prima parte del programma, meno portata invece nella parte dei bassi costi.
Comunque da gennaio la Brown ha replicato alle critiche annunciando le versioni dedicate di Newsweek per i vari tablet, a cominciare dall’iPad, e successivamente ha presentato il progetto di nuova web Tv da accoppiare al suo blog.
A cosa mirano queste mosse? Sicuramente tutte queste operazioni hanno come primo obiettivo quello di estendere il target di riferimento della nuova piattaforma e, di conseguenza, intercettare un flusso maggiore di inserzioni pubblicitarie mirate.
Successivamente si cerca di rendersi appetitosi come partner per investimenti tecnologici. In sostanza Newsweek mette in vetrina quello che rimane del suo brand per attirare gruppi di provider in Rete alla ricerca di contenuti: puntare sulla web Tv e sulla fruizione mobile è l’unico modo per convogliare un numero sempre più consistente di fruitori.
In questo contesto turbolento, avvolto per altro da una congiuntura economica sempre più allarmante, cosa dovrebbe spingere gli investitori a puntare sull’esperimento di Newsweek e tenerlo ancora in vita?
Innanzitutto il tempo.
Sei mesi per un trapianto sono davvero pochi, in tutti i sensi.
Si deve assestare un processo complesso, dove produttori, gestori e fruitori devono trovare sintonie e convergenze che non sono naturali.
Bisogna permettere alla redazione di affiatarsi, di trovare un modello semantico comune. Infine deve maturare il mercato, che vede tramontare le vecchie forme di editorie top down, e non intravede ancora affermasi nuove formule.
Infine bisogna capire quale sia realmente il segnale del successo. Davvero nella nuova editoria partecipata, dove giornalista ed utente conversano attorno alla notizia da scambiarsi, il successo si esprime con alte tirature e grandi frequentazioni del sito, in modo da fatturare grandi quantità di inserzioni pubblicitarie? Sembrerebbe strano che del vecchio modello di editoria che sta tramontando sopravvivrebbe solo la contabilità finanziaria.
Forse questo è il vero nodo da sciogliere. Un nuovo modello di business è ancora un business?

A cura di Michele Mezza e Carmela Adinolfi

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