Pubblichiamo il testo di Elisa Giomi, Commissario Agcom e sociologa dei media, che propone una visione alternativa sulle puntate televisive che hanno trattato il caso SHARON VERZENI.
Dopo anni in cui credevamo che il discorso pubblico italiano avesse ormai recepito perlomeno i fondamenti della corretta narrazione della violenza di genere, arriva l’ennesima inversione di tendenza, e quel che è peggio ad opera di chi la correttezza della comunicazione dovrebbe garantire, ovvero Agcom.
Questo perché i provvedimenti in materia presi dall’Autorità sul tema sono sempre blandi e dunque difficilmente efficaci. E’ accaduto persino con uno dei peggiori casi di narrazione tossica di femminicidio mai registrati in televisione, in una riunione di Consiglio proprio a ridosso del 25 novembre. Parlo della feroce uccisione di Sharon Verzeni ad opera di un uomo a lei sconosciuto, avvenuta lo scorso luglio nella provincia di Bergamo, a cui il programma “Pomeriggio Cinque News’” aveva dedicato un approfondimento il 20 agosto.
Nello scambio tra conduttrice, avvocata e psicoterapeuta ospiti della trasmissione ci si domanda “com’è possibile che una ragazza in questo periodo storico, con tutti questi rischi che si corrono, con questi femminicidi, prenda ed esca di casa mentre il marito dorme” affermando successivamente che “noi donne dobbiamo stare di più a casa, dobbiamo chiedere di accompagnarci”.
Queste parole lungi dal trovare argine ricevono al contrario pieno supporto da parte della conduzione e quindi, per estensione, dell’emittente che essa rappresenta. Si tratta di un caso molto grave di vittimizzazione secondaria: è la donna, anzi tutte le donne, a finire sul banco degli imputati e a essere considerate corresponsabili della loro stessa morte, per via di comportamenti caratterizzati da “imprudenza”.
C’è un ulteriore corollario, non meno importante. In queste parole si avalla implicitamente l’idea che le donne siano cittadine di “serie B”, impossibilitate a muoversi nella città senza previo consenso informato del marito o doveroso accompagnamento, e dunque private del diritto ad occupare lo spazio pubblico con la stessa libertà e alla stesse condizioni degli uomini, pena divenire prede degli uomini stessi. Di più: attraverso una costruzione discorsiva tesa a rappresentare zona e fascia oraria dell’uscita di Verzeni come dense di insidie – peraltro a fronte di smentite di altri intervistati – il sotto testo della trasmissione si spinge in modo neppure troppo velato a disconoscere alle donne persino il più elementare dei diritti: “queste (le femministe, ndr) invece dicono ‘siamo libere, noi abbiamo il diritto di rimanere vive’. Non c’è questo diritto!”.
Un paradosso che sia proprio una trasmissione condotta da una donna e in cui intervengono professioniste donne a mettere in discussione l’esistenza, per le loro simili, del primo dei diritti naturali, il primo garantito dalla Costituzione, che qui diventa strampalata convinzione delle femministe. Ecco riaffacciarsi l’idea del femminismo come ideologia nociva per le donne ed ecco, soprattutto, spazzati via oltre 50 anni di lotte per la libertà e l’emancipazione femminile in pochi minuti.
A fronte di tutto questo mi chiedo in che modo un’ennesima sollecitazione alle emittenti al rispetto delle norme, priva di conseguenze concrete, possa scongiurare il ripetersi di violazioni così eclatanti dei principi generali a cui le trasmissioni dovrebbero attenersi. E la scelta del Consiglio appare tanto più inspiegabile, una vera e propria rinuncia ad esercitare pienamente le proprie prerogative, se si considera che l’Autorità si è dotata fin dal 2019 di regolamenti ad hoc proprio per tutelare i diritti fondamentali della persona, che prevedono oltre a importanti sanzioni anche il coinvolgimento dell’ordine dei giornalisti nonché la promozione di procedure di co-regolamentazione, sia con i media audiovisivi, sia con le piattaforme di condivisione di video.
A quattro anni dall’inizio del mandato di questo Consiglio non si è ancora vista l’applicazione di nessuna di queste misure, che avrebbero potuto costituire deterrenti più efficaci, soprattutto in caso di violazioni gravi o ripetute da parte degli stessi broadcaster. Al contrario, nonostante i presidi sanzionatori previsti, la maggior parte dei programmi che arrecano un pregiudizio alla dignità delle donne finisce con semplici inviti e solleciti o addirittura con un’archiviazione, in nome della legittima diversità di orientamenti culturali e sensibilità dei componenti del Consiglio. Come se i diritti fossero opinabili.
E’ quanto successo in un altro gravissimo caso, oggetto di numerose segnalazioni, ovvero la puntata del programma Rai ‘Porta a Porta’ dello scorso 18 aprile, in cui a dibattere su aborto e sulla proposta di aumentare il numero delle associazioni pro vita nei consultori erano 7 uomini e nessuna donna. Un’immagine talmente bizzarra da diventare virale sui social, con picchi paradossali in cui il conduttore rivolge ai suoi ospiti una domanda che rimarrà senza risposta: “Ma cosa vogliono le donne? Vogliono maggiori informazioni?”. Di nuovo cittadine di serie B, dunque, escluse dal dominio della rappresentanza e della rappresentazione, ridotte ad oggetto di speculazioni e fallaci ipotesi interpretative senza la possibilità di parlare per sé neppure su un tema come l’interruzione di gravidanza, che le riguarda direttamente e su cui dovrebbero avere piena ed esclusiva autodeterminazione. Anche in quel caso ho dovuto esprimere voto contrario all’archiviazione.
Lasciare episodi del genere senza alcuna conseguenza significa fare un danno in primo luogo al pubblico, che si trova esposto a messaggi fuorvianti e inammissibili e tuttavia legittimati proprio dall’assenza di interventi da parte dell’Autorità di garanzia. In secondo luogo, significa fare un danno all’intero sistema audiovisivo, inclusa l’emittente che se ne rende responsabile: ad originare queste violazioni è spesso un mix di mancanza di familiarità con fenomeni sociali complessi quali la violenza di genere, contesti e linguaggi non sempre compatibili con l’approfondimento e ritmi serrati come quelli della produzione televisiva, che offrono ideale terreno di coltura a stereotipi, iper-semplificazioni e narrazioni tossiche. Rinunciare ad evidenziarle come tali, con la nettezza che solo una diffida o una sanzione possono avere, significa privare gli operatori mediali e culturali degli anticorpi per riconoscere e debellare queste narrazioni.