Paolo Ambrosi, compagno di collegio al Borromeo di Pavia ai tempi dell’Università, lui medico e psichiatra, io fisico mancato, ragazzo – allora – con senso dell’umorismo e spirito acuto (l’allora è relativo solo al ragazzo; il resto rimane valido), mi ha recentemente mandato, via WhatsApp, il testo di una barzelletta romana del IV secolo d.C. – piena decadenza: di lì a poco l’Impero sarebbe caduto e i romani che l’avevano creato e difeso si sarebbero progressivamente ridotti a quello che siamo oggi -.
Questa la barzelletta. Un tizio colto, ma pedante, incontra per caso un amico per strada e gli dice “Mi hanno detto che eri morto”. L’amico risponde: “Ma come vedi sono vivo” (Mark Twain avrebbe detto che la notizia era esagerata e quanto meno anticipata). Il tizio colto, ma pedante, ribatte: “Ma la persona che me lo ha detto è molto più attendibile di te”.
La storiella riporta ben indietro nel tempo il dibattito, eterno, ma attualissimo, sulle ‘fake news’ ed ‘i fatti alternativi’, cioè falsi, ma che tutti – o almeno moltissimi – credono che siano veri o finiscono con il crederlo data l’autorevolezza di chi li racconta – potrebbe pure essere il presidente degli Stati Uniti – o la diffusione ‘virale’ che i social media danno loro.
Funzionali al potere, o funzionali a minarlo, le ‘fake news’ e i ‘fatti alternativi’ non sono, dunque, un’emergenza informativa del Terzo Millennio. Le novità sono piuttosto la rapidità e la capillarità con cui oggi si diffondono – vale per le notizie false, ma pure per le vere, con l’handicap che spesso le prime, essendo inventate, sono più accattivanti delle seconde -.
C’è un antidoto alle ‘fake news’ che avvelenano l’informazione? Politici e uomini di cultura, professionisti della comunicazione e specialisti d’informatica s’interrogano e provano a dare risposte, talora contraddittorie con la libertà d’espressione. Sotto certi cieli e in certi regimi, anche dentro la nostra Europa, è forte la tentazione d’imbavagliare l’informazione, con la scusa d’impastoiare la cattiva informazione, che, in quei casi, è spesso non l’informazione falsa, ma quella scomoda.
Non so, e non sono sicuro, che i percorsi un po’ confusamente e un po’ precipitosamente intrapresi siano quelli giusti. Sono, invece, convinto che un antidoto alle ‘fake news’ è la professionalità e l’onestà di chi fa informazione: se una fonte, per autorevole, o potente che essa sia, cita dati di fatto falsi, le sue affermazioni vanno riportate, ma immediatamente messe a confronto con i dati esatti (riferendone la fonte). Doppio l’impatto: lo sbugiardamento oggettivo dell’untore di ‘fake news’ ed il ripristino della correttezza dei dati di riferimento.
Abdicare a tale funzione, per pavidità o per opportunismo, sarebbe – se non è – la resa del giornalista (e del giornalismo) alle ‘fake news’ e l’autocondanna alla deliquescenza della professione. Non sono le ‘fake news’, come non sono i social media, a rendere obsoleti i giornalisti; sono i giornalisti, siamo noi, a renderci obsoleti quando rinunciamo a fare il nostro mestiere e ne dissipiamo affidabilità e credibilità.