Fuga dall’Egitto – Inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe, di Azzurra Meringolo Scarfoglio, Infinito Edizioni
Sospesi tra il “non più” e un “non ancora”. Così Amro Ali, sociologo egiziano-australiano e docente alla American University del Cairo, ha descritto (con le parole di Hannah Arendt) il mondo arabo nel post-rivolte. Una condizione ancora più netta per gli esuli che oggi vivono le loro vite a cavallo di quello iato, attraversandolo non solo temporalmente ma anche fisicamente. Un’esistenza fatta di relazioni, professione, attivismo, lasciata alle spalle in patria, e una nuova che a fatica si tenta di ricostruire. Lontani, non tanto per una distanza geografica – perché in tanti già da prima avevano vite transfrontaliere – ma per l’impossibilità di tornare nei luoghi considerati ‘casa’ e lì di agire liberamente.
È questo lo spazio, precario e doloroso, che indaga il libro di Azzurra Meringolo Scarfoglio, Fuga dall’Egitto – Inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe. E lo fa tessendo una tela immaginaria tra Washington e Parigi, Istanbul e Francoforte, Roma, Amman e Londra, costruita negli ultimi anni dalla sua determinazione a cercare, ovunque andasse nei suoi viaggi, di riconnettere i fili di amicizie, relazioni e contatti nati per le strade dell’Egitto. Tutti fili che una volta – appena qualche anno fa, ma in un’altra epoca storica – avevano il loro centro nevralgico al Cairo, tra i caffè, gli uffici, il traffico e la polvere, e che improvvisamente sono stati dispersi in tutto il mondo fino a formare una nuova geografia affettiva, sociale e politica. Al punto che l’Egitto di oggi, privato di queste presenze, sarebbe un paese quasi irriconoscibile a chi, avendo vissuto gli anni della rivolta, i dibattiti, le proteste di piazza, le lotte, vi rimettesse piede.
Un paese che dopo il golpe militare del luglio-agosto 2013 (legittimato da una mobilitazione di massa nelle piazze), e ancor più nell’ultimo anno, ha vissuto un’accelerazione autoritaria senza precedenti nella sua storia moderna. I rapporti che parlano di 60.000 prigionieri politici dal 2013 in poi, centinaia di sparizioni forzate ogni anno, condanne a morte e torture, ne offrono un ritratto cupo, reso ancor più drammatico dalla svolta qualitativa oltre che quantitativa impressa ai suoi metodi repressivi, inedita anche rispetto ai periodi più atroci dei regimi pre-rivolta. L’Egitto del generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi (che si appresta a rimanere in carica fino al 2034 grazie alle ultime riforme costituzionali) mira ormai a sopprimere qualsiasi spazio e dissenso, anziché – come facevano i suoi predecessori – mantenere una parvenza di pluralismo concedendo e controllando limitate sacche di indipendenza nella società.
“Quello che è accaduto sette o otto anni fa – ha detto al-Sisi recentemente riferendosi alla rivoluzione – non accadrà più in Egitto”. È tutta qui la logica dell’attuale violenza del regime. La brutalità della reazione è oggi direttamente proporzionale alla forza dei desideri, delle possibilità e dell’immaginazione scatenate dalle piazze del 2011 e 2012. Ed è qui che l’esilio, lungi dal rappresentare la vittoria finale dell’autoritarismo che allontana da sé la minaccia rivoluzionaria, assume invece la forma di una nuova tattica, la conquista di una posizione (sì, instabile, scomoda e non senza inciampi) da cui continuare quella battaglia. Se c’è da citare un merito tra i tanti del libro di Azzurra Meringolo Scarfoglio è proprio questo: il riuscire a trasmettere perfettamente questa consapevolezza della diaspora egiziana. Non c’è alcun vittimismo nelle parole dei protagonisti, che pure a volte raccontano lucidamente delle torture subite o viste, così come non c’è da parte dell’autrice nessuna concessione al pietismo. Perché non è di questo che interessa parlare.
“Ho fatto quello che ho fatto per sentirmi libero e per riavere la mia libertà prima che diventasse solo una memoria,” scriveva dal carcere Ahmed Said, uno degli intervistati nel libro, chirurgo arrestato nel 2015 per una commemorazione pacifica dei manifestanti caduti negli scontri di via Mohamed Mahmoud al Cairo nel 2011. E così come ha accettato il carcere, Ahmed accetta oggi l’esilio perché anche restando in Egitto a piede libero, sarebbe comunque come tutti rinchiuso “in una immensa prigione di massa”.
“Anche sopravvivere è una forma di resistenza”, ha scritto quest’anno nell’anniversario della rivoluzione Wael Eskandar, giornalista tutt’ora di base al Cairo. Ed è questo un motivo primario che accomuna la ‘fuga’ di molti degli esuli raccontati nel libro. Non la paura, ma la voglia di poter continuare a vivere, lavorare, trovare vie di crescita e di realizzazione stanno alla base della difficile scelta. Partire è stato “l’unico modo per continuare a fare i giornalisti” per Ahmed Ragab e Mostafa el-Marsafawi, redattori di al-Masri al-Youm ostracizzati dopo aver pubblicato un’inchiesta sull’uccisione di Giulio Regeni. “Mi è impedito di essere l’uomo che vorrei essere”, si confessa all’autrice Abdelrahman Yusuf, poeta e figlio di uno dei più celebri volti dell’Islam politico.
Una sopravvivenza però tutt’altro che passiva. Perché la storia degli esuli è una storia di rivoluzionari, e in fondo della rivoluzione stessa. E se una rivoluzione c’è stata, ed è stata per il momento sconfitta, compito dei suoi protagonisti è analizzare i perché del disfacimento di quella esperienza (il “non più”) e porre le basi per un nuovo slancio, stavolta più efficace, più organizzato, con obiettivi più chiari (il “non ancora”).
È questa la tensione che attraversa in un modo o nell’altro tutti i racconti raccolti da Azzurra Meringolo Scarfoglio, una quindicina in tutto ma rappresentativi di un ampio spettro dell’intelligentsia egiziana. Lì dove qualcosa di molto interessante si sta muovendo da alcuni anni a questa parte, e di cui anche gli studi accademici cominciano ad interessarsi, l’autrice ascolta e lascia scorrere tutte queste storie, con il tocco delicato di una confidente, la penna sapiente della giornalista, e lo sguardo profondo e di lungo periodo della ricercatrice. Dal giovane medico sindacalista di sinistra al liberale Ayman Nour (politico di lungo corso che per primo sfidò Mubarak alle elezioni), dal figlio di un islamista, Mohamed Soltan (eroico nel suo sciopero della fame in prigione durato oltre un anno) a uno dei padri storici del movimento per i diritti umani egiziano, Bahey Eldin Hassan, dalla ragazza di provincia che ha sfidato le rigide norme della famiglia patriarcale per scendere in piazza, a Nancy Okail, ‘pariolina’ del Cairo, esponente di punta di quella vivace società civile organizzata messa sotto accusa dal regime.
Tutti impegnati in uno sforzo di autocritica e auto-analisi collettiva, e allo stesso tempo nei tanti e variegati nuovi progetti (culturali, artistici e politici) e nel forgiare nuove alleanze, con lo sguardo sempre puntato in avanti. Ci tiene a dirlo chiaramente Saif Eddin Abdel Fattah, ex professore di Scienze Politiche all’università del Cairo: “Nessuno pensi che la nostra lotta è finita. Ci stiamo preparando al prossimo capitolo”.
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