Parole pesanti, ma piccoli passi, sulla via della lotta contro il cambiamento climatico: la staffetta tra il G20 di Roma, sabato e domenica, e la Cop26 di Glasgow, che ha avuto i suoi giorni clou lunedì e martedì, non ha il ritmo frenetico del passaggio di testimone di una 4×100, ma quello più studiato di una 4×400. E le assenze di Roma – i presidenti cinesi Xi Jinping e russo Vladimir Putin – si amplificano a Glasgow, dove non ci sono neppure i presidenti turco Recep Tayyip Erdogan e brasiliano Jair Messias Bolsonaro.
A Roma, i Grandi fanno comunque un progresso rispetto agli Accordi di Parigi, anche se non è accompagnato da indicazioni vincolanti su modi e tempi – del resto, non è nel potere di Vertici come i G7 e i G20 prendere decisioni, ma piuttosto definire priorità, tracciare percorsi e indicare impegni -.
Nelle conclusioni che il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, presidente di turno del G20, illustra a Vertice concluso c’è per la prima volta l’impegno a contenere in un grado e mezzo l’aumento della temperatura rispetto all’era pre-industriale entro il 2050, anche se l’obiettivo è espresso in modo sfumato (intorno alla metà del XXI Secolo), perché la Cina fissa la sua barra al 2060 e l’India addirittura al 2070 (e pure la Russia è riluttante). La geo-politica del clima s’intreccia con la green economy e la condiziona.
E Stati Uniti e Unione europea, di nuovo battistrada nella lotta al cambiamento climatico, una volta chiusa la parentesi negazionista della presidenza Trump, scoprono a Roma di avere un forte alleato in Papa Francesco – parola di Draghi e di Joe Biden -, sul fronte clima e anche su quelli della lotta alla pandemia, alla povertà, alle disuguaglianze. Tutti sintomi d’un unico male: un Pianeta di uomini cinici e iniqui, la cui stella polare è il profitto personale e non il bene comune.
A Glasgow, la platea si allarga: i 20 diventano 190, tutti i Paesi che partecipano alla Cop26, che pochi sanno perché si chiama così – è la 26a tappa della Conferenza delle Parti (‘Cop’ è l’acronimo in inglese) coinvolte nella convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici.
Tra Roma e Glasgow, il protagonista europeo assoluto è stato il premier Draghi, che ha ricevuto elogi unanimi per l’organizzazione e la gestione del G20, oltre che per i risultati conseguiti dall’Italia nella lotta contro la pandemia e per il rilancio dell’economia.
Nei complimenti alla presidenza, c’è una buona dose di diplomazia e di ritualità. Ma è evidente che la credibilità personale di Draghi accresce il peso dell’Italia in Europa e nel Mondo, anche giocando sulla debole congiuntura franco-tedesca. La Germania attende il governo del dopo Merkel – a Roma c’era ancora l’immarcescibile Angela – e la Francia è ormai proiettata verso le elezioni presidenziali della prossima primavera, con Emmanuel Macron alla ricerca di una conferma non scontata.
Martedì sera, i leader, pronunciati i loro discorsi, se ne sono andati e i riflettori dei media si sono spenti. Da quel momento, sono incominciati i negoziati veri e propri fra le delegazioni: andranno avanti fino al 12 novembre, a meno che – come spesso avviene in queste assise – all’ultimo istante gli orologi non vengano fermati per proseguire le trattative ad oltranza.
Ne usciranno valanghe di parole – che Greta Thunberg bolla come “blablabla” -, molti auspici e qualche impegno. Che andranno poi misurati con i fatti e con i risultati. Nei discorsi, tutti i leader o quasi sono consapevoli dell’urgenza; nella pratica, tutti si confrontano con abitudini radicate difficili da cambiare e con visioni miopi basate sul corto termine. Ma segnali incoraggianti, sulla riduzione dei consumi di metano e sullo stop alla deforestazione, sono già venuti.