Gino Bartali: Una bici contro il fascismo, di Alberto Toscano, Baldini&Castoldi 2019, pag. 197, euro 17.
Additare gli sportivi come esempi da seguire è una retorica spesso abusata. A volte, però, è giusto farlo: è il caso di Gino Bartali, leggenda del ciclismo e Giusto tra le Nazioni per l’impegno a favore degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Una vita raccontata da Alberto Toscano in Gino Bartali: Una bici contro il fascismo, edito da Baldini&Castoldi.
Il racconto di Toscano parte dalla giovinezza di Bartali, nato in una famiglia modesta in un villaggio della campagna fiorentina: l’abbandono della scuola dopo le elementari; la prima bicicletta, comprata a 12 anni con i guadagni di qualche lavoretto; le prime gare in bici, dove ben presto gli avversari iniziano a pagarlo per arrivare secondo, perché è troppo forte. E la morte prematura, in gara, del fratello minore Giulio, anche lui ciclista: una tragedia che porta Gino ad abbandonare la bicicletta per mesi. Una volta tornato in sella, vince il suo primo Giro d’Italia nel 1937.
Sono gli anni del fascismo, della nazionale di calcio di Vittorio Pozzo che vince i Mondiali salutando orgogliosa con il braccio teso: nel binomio sport-totalitarismo, i successi sportivi vengono celebrati come trionfi del regime. Bartali, cresciuto in una famiglia socialista e cattolica, non vuole però prestarsi al gioco e rifiuta di prendere la tessera del partito fascista.
Quando, nell’autunno 1943, l’Italia spaccata in due è teatro, al Nord, di rastrellamenti di ebrei, per Gino Bartali, il campione antifascista, è il momento di agire. Su invito dell’arcivescovo di Firenze, diventa una delle maglie di una vera e propria rete di salvataggio per gli ebrei: la Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti), che si occupava di nascondere gli ebrei in Italia e di aiutarli a scappare in Svizzera o nel Meridione già liberato dagli Alleati.
Bartali inizia la corsa più importante della sua vita: con il pretesto degli allenamenti, infatti, ha il privilegio di potere circolare liberamente in bici. Lo sfrutta facendo da postino di documenti falsi, che costituiscono l’unica possibilità di fuga per molti ebrei. Nasconde carte d’identità e lettere nei tubi e nel sellino della bici, per evitare perquisizioni, mentre senza scomporsi rilascia autografi ai soldati della Wehrmacht che lo fermano. Un’attività di cui non informa nemmeno la moglie Adriana, per non metterla in pericolo.
Nel dopoguerra, Gino Bartali si butta di nuovo a capofitto nelle competizioni, iniziando la leggendaria rivalità con Fausto Coppi:nonostante molti lo considerino ormai finito, vince il Giro d’Italia nel 1946, il primo disputato dopo la guerra. Due anni dopo, nel clima di tensione per l’attentato a Palmiro Togliatti, trionfa nella tappa di giornata e nella classifica generale al Tour de France: un successo inaspettato che unisce tutta l’Italia. Dallo stesso Togliatti, che segue la gara dall’ospedale, ad Alcide De Gasperi, che telefona a Bartali per incitarlo e poi per congratularsi.
Anche dopo il ritiro, avvenuto nel 1955, Bartali non racconta a nessuno del suo operato a favore degli ebrei: “Il bene si fa, ma non si dice”, sostiene, è una cosa intima, privata. La vicenda diventa pubblica soltanto negli Anni Ottanta, in seguito a un libro e a un film americani che raccontano come la Chiesa cattolica abbia contribuito a salvare centinaia di ebrei.
“Tutto sbagliato, tutto da rifare” è la citazione più celebre di Gino Bartali: una frase che poco si adatta alle sue imprese, sia quelle in corsa, che lo hanno consacrato come leggenda del ciclismo, sia quelle che hanno indotto lo Yad Vashem – l’ente israeliano per la memoria della Shoah – a conferirgli il titolo di Giusto tra le Nazioni.
Eleonora Febbe

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