di CHRISTIAN D’ACUNTI –

La scadenza del 24 marzo si avvicina. Ancora pochi giorni e il decreto legislativo numero 1 del 24 gennaio 2012 sulle liberalizzazioni diventerà legge dello Stato, oppure subirà delle modifiche che ne annacquerebbero lo spirito. L’associazione Fenagi Confesercenti (Federazione nazionale dei giornalai) tiene gli occhi puntati sull’articolo 39 del decreto, che darebbe il via libera alla vendita di quotidiani e periodici non solo nelle edicole o nei bar autorizzati alla vendita di monopoli dello Stato. Ma a mettere in allarme le varie sigle di categoria (Snag, Uil Tucs, Sinagi slc Cgil, Felsa Cisl giornalai, Usi Agi) sono dei punti in particolare dell’articolo 39 del decreto: la possibilità di praticare gli sconti e, ovviamente, la liberalizzazione selvaggia. Ma su quest’ultimo aspetto la Fenagi confida nelle Regioni, chiamate a legiferare in materia con delle norme che porrebbero un freno alla deregulation annunciata. Lo sconto, invece, per le associazioni strozzerebbe definitivamente i venditori già fiaccati dal calo delle vendite, dovuto a una crisi strutturale dell’editoria cartacea. La controversia è dunque tutta giocata sulla modifica dell’articolo 5  della legge 170 di “Riordino del sistema di diffusione della stampa quotidiana e periodica” del 24 aprile del 2001 che fissa il prezzo dei giornali per tutti i punti vendita.
La Fieg, presieduta da Giulio Anselmi, invece apre alle possibilità di liberalizzazione contenute nel decreto “Cresci Italia”. «La Fieg, consapevole della importanza per tutta la filiera della editoria di una efficace distribuzione dei prodotti editoriali, ritiene che siano necessari interventi di razionalizzazione nella gestione della rete e dei punti vendita. Fra gli interventi per modernizzare e valorizzare la filiera distributiva la Fieg, che sta già lavorando all’informatizzazione della rete, valuta come opportunità positiva la possibilità di maggiori flessibilità per le singole edicole per la vendita di giornali e riviste».
Al di là delle legittime rivendicazioni delle singole categorie di una filiera complessa come quella dell’editoria cartacea, occorre riflettere su un dato: il 50 per cento dei costi se ne va per la produzione e la distribuzione e solo un 15 per cento per la produzione dei contenuti. Nell’editoria digitale, come potrebbe venire reinvestito quel 50 per cento risparmiato?

Chrstian D’Acunti

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