Luoghi comuni /1
Recentemente mi è stato chiesto quali siano i luoghi comuni più diffusi riguardo i giovani e il lavoro.
La prima risposta che mi è venuta in mente è: la crisi. Infatti, non stiamo vivendo un periodo di crisi. La crisi è un accadimento momentaneo, di breve durata; quello che stiamo vivendo da più di sette anni è invece un periodo di grande cambiamento: della società, dei valori, dell’economia e del mercato del lavoro. Pertanto, aspettare che passi la crisi e che tutto torni come prima è assurdo, non si può restare ancorati al passato negando il cambiamento, gestendo il presente con gli strumenti del passato, ma bisogna adeguarsi e affrontare le trasformazioni in atto con nuovi mezzi e nuove risorse. Questo vale per tutti, ma più ancora per i giovani, che si stanno accingendo ora a costruire il proprio percorso di vita e di lavoro. Certo, dire che c’è la crisi può servire a scaricare le responsabilità: “Ho studiato, ho dato gli esami, mi sono laureato, ho fatto il mio dovere e se ora non trovo lavoro non è colpa mia ma della crisi”. Ma cosa si ottiene con questo atteggiamento?
Conseguentemente, anche la disoccupazione giovanile diventa un luogo comune: certo, il numero di giovani assunti con un contratto a tempo indeterminato è calato notevolmente rispetto agli anni passati, ma è il contratto a tempo indeterminato a essere al tramonto, ed è normale che si riduca maggiormente con la nuova generazione. La disoccupazione colpisce tutti, solo che gli adulti, siccome devono continuare a mantenere la famiglia (e i figli studenti), in mancanza di alternative accettano riduzioni di ruolo, cassa integrazione o si aprono la partita Iva per riproporsi come consulenti alle aziende, magari le stesse presso le quali erano prima assunti a tempo indeterminato, lavorando quindi in modo più sporadico, ma risultando formalmente occupati. Con i giovani le aziende hanno ancora più possibilità di “cavalcare la crisi”, e non nego che in certi casi arrivino ad approfittarne in modo scandaloso: ma quello che dovrebbe interessare i giovani, all’inizio della loro carriera, è fare esperienze lavorative coerenti con i propri obiettivi professionali, non acchiappare un contratto stabile. Ormai anche il concetto di stabilità sta mutando: il mondo sta cambiando sempre più velocemente, la stabilità deriverà dalla capacità di ciascuno di adeguarsi il più velocemente possibile ai cambiamenti. Non confondiamo la stabilità con la staticità dei secoli scorsi.
Per un cinquantenne, fino a ieri quadro o dirigente, cresciuto ed educato in base alla convinzione che più alto è il livello di studio, maggiori sono le possibilità di impiego e di crescita economica e se si lavora con serietà la stabilità lavorativa è assicurata, vedere stravolte queste certezze può essere traumatizzante, ed è comprensibile che questi adulti possano incontrare difficoltà, sia soggettive che oggettive, a gestire il cambiamento del mercato del lavoro e che rimpiangano i bei tempi passati. Ma i giovani, che non hanno mai sperimentato il mondo del lavoro, perché rimpiangono quello dei loro genitori invece di guardare avanti? A tal punto sono stati condizionati dai “vecchi”?
Affrontare il nuovo richiede coraggio, determinazione e spirito di sacrificio. Mettersi in gioco e costruirsi personalmente la propria carriera giorno per giorno, senza affidarla all’azienda, come facevano nonni e genitori, è più faticoso, ma anche più appagante. E ci sono anche gli strumenti e le condizioni per farlo: le nuove tecnologie, la connessione globale, l’abbattimento delle frontiere offrono ai giovani tantissime opportunità, basta saperle cogliere, e per fare ciò bisogna guardare avanti con fiducia e ottimismo.

Luoghi comuni /2
Un altro luogo comune, che può anch’esso divenire una forma di condizionamento, è quello in base a cui le lauree scientifiche siano più spendibili di quelle umanistiche, e comunque che alcuni corsi di laurea offrano più possibilità d’impiego di altre. A parte il fatto che le richieste del mercato del lavoro cambiano, e cambiano sempre più velocemente, pertanto non è affatto detto che ciò che “tira” oggi sia richiesto anche tra qualche anno al termine del corso di studio, la questione più importante, che viene puntualmente trascurata da chi segue i trend di mercato, è la passione.
Il vero motore del lavoro è proprio la passione; se svolgo un’attività che mi piace e mi coinvolge, non solo il tempo vola, ma la eseguo meglio, con più attenzione ai dettagli e maggior lungimiranza: ne trarrà vantaggio anche l’azienda che mi paga lo stipendio, e che quindi mi terrà ben stretto, mi farò un nome, sarò richiesto per nuovi progetti, acquisirò stabilità. Se invece mi scelgo un lavoro solo perché è di moda ed è richiesto, lo svolgerò più svogliatamente, mi peserà di più, aumenteranno i margini di errore e i risultati saranno comunque sempre inferiori a chi quello stesso lavoro lo svolge con entusiasmo.
Seguire le proprie passioni e realizzarle attraverso un lavoro che concretizza i propri interessi facilita l’aggiornamento continuo, gli approfondimenti e la visione a medio-lungo termine, permettendo così di stare al passo con un mercato che cambia velocemente e richiede flessibilità. Facilita anche la creazione di una propria identità professionale unica e particolare, che fa uscire dalla massa standardizzata.
E qui arriviamo a un altro luogo comune: il condizionamento, proprio a partire dall’università, a essere tutti uguali. Piani di studio uguali per tutti, con minime possibilità di variazione, tirocini curriculari simili, esami scritti uguali per tutti, corsa a laurearsi in corso, CV in formato europeo uguale per tutti, con la prospettiva di entrare in un mercato del lavoro basato su omologazione e competizione…ma quello è un modello lavorativo ormai al tramonto! Oggi finalmente ci si sta orientando di più sull’individuo, sui suoi valori, sulla sua unicità, in base a un modello collaborativo, in cui all’interno del gruppo ognuno porta il proprio personale specifico contributo. Non sarebbe il caso di cominciare a creare la propria identità professionale già durante gli anni universitari, per non arrivare al mercato del lavoro completamente spersonalizzati e quindi confusi?
Segue la seconda parte.

Sabrina Mossenta
Aristea Camporesi

Articolo precedenteDal blog di Roberto Saracco: ICT Days 2014, Data tapestry
Articolo successivoAgi: firmato Memorandum of Understanding con Xinhua – Cina