di GIAMPIERO GRAMAGLIA.

La stampa internazionale, europea ed americana, ha seguito e continua a seguire con attenzione e partecipazione la vicenda del disegno di legge sulle intercettazioni, la cosiddetta “legge bavaglio”: i fronti d’interesse sono diversi, quello politico, quello giudiziario e quello della libertà d’espressione, d’informazione e di stampa. Anche le Organizzazioni internazionali competenti, a vario titolo, per il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sono attente all’evoluzione del dossier e, in qualche caso, hanno già segnalato le loro preoccupazioni.

Ma non sempre per i corrispondenti esteri da Roma è facile capire quel che sta accadendo e perchè sta accadendo. In giugno, Maarten Van Aalderen, presidente dell’Associazione Stampa Estera, olandese, corrispondente di De Telegraaf, ha preso l’iniziativa d’invitare il presidente della Fnsi Roberto Natale e i direttori de Il Fatto, de l’Unità e del Secolo d’Italia a rispondere alle domande dei giornalisti stranieri di stanza a Roma, nel palazzo di via dell’Umiltà che ospita l’Associazione, quasi di fronte alla sede del Pdl.

Intorno al tavolo, c’erano corrispondenti nord-americani e latino-americani, europei dell’Ue e svizzeri, israeliani e musulmani, greci e turchi, desiderosi di capire perché la stampa italiana testimonia, con l’astenzione dal lavoro di un giorno e anche nelle scelte grafiche – prime pagine listate a lutto, o bianche; post o manchette ripetuti -, il no alla legge che limita le ipotesi di ricorso alle intercettazioni da parte degli inquirenti e riduce il diritto di cronaca in merito alle indagini.

Le curiosità insoddisfatte dei giornalisti stranieri riguardano che cosa succederà adesso (e, dal punto di vista politico, ogni giorno porta nuove incognite), ma, soprattutto, che cosa d’ora in poi si potrà legalmente scrivere senza violare la legge e senza rischiarne i rigori. Tutte domande le cui risposte, ovviamente, mutano con l’avanzare del disegno di legge e il modificarsi del testo.

Quello che però sconcerta i corrispondenti è il confronto che ciascuno fa con le norme e le prassi del proprio Paese – che sovente coincidono, dagli Stati Uniti alla Vecchia Europa: la regola viene applicata e rispettata o fatta rispettare -, mentre in Italia in particolare la norma è una cosa e la prassi è un’altra, spesso divergente, talora contrastante, raramente sanzionata. Perché succede? Come può succedere?

In molti Paesi la cui libertà di stampa non è controversa, le leggi che regolano l’informazione sulle inchieste giudiziarie sono più rigide che in Italia e, in genere, sono rigorosamente osservate, senza che nessuno gridi al bavaglio. Riservatezza delle indagini, a tutela fra l’altro della loro efficacia, presunzione d’innocenza dell’imputato, rispetto della privacy sono i valori che ispirano norme e comportamenti. Ma, a differenza che in Italia, e senza volere generalizzare, chè le eccezioni ci sono ovunque, spesso altrove la giustizia fa il suo corso in tempi più celeri che in Italia e spesso un’inchiesta sfocia in decisioni e in processi e in sentenze in tempi utili, mentre in Italia può accadere – e non è raro – che l’unica condanna di malfattori conclamati sia quella mediatica, perché i tempi dell’indagine e del giudizio si dilatano in modo abnorme. E un detto anglosassone recita che “giustizia dilazionata è giustizia negata”.

Questo spiega perché, in Italia, limitare il flusso d’informazioni all’inizio dell’inchiesta potrebbe significare limitarlo per sempre e impedire all’opinione pubblica di essere informata di fatti e/o di comportamenti impropri. Ma una risposta equa e civile al problema “italico” non può essere l’attuale prassi che rischia di consegnare al pubblico ludibrio l’innocente insieme al colpevole o – ancora – di attirare l’attenzione di un’opinione pubblica già incline più alla forma che alla sostanza più sui gossip che sui fatti.

Sulla “legge bavaglio”, la stampa britannica, la spagnola, la francese, ma anche quella americana, sono molto attente e critiche. Giornali come El Pais e Le Monde, il Financial Times e il New York Times hanno in qualche misura fatta loro la battaglia di libertà dei giornalisti italiani, spesso però stigmatizzando episodi di “processi mediatici” spiccioli e frettolosi. Anche le istanze internazionali, come già accennato, sono vigili. La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo è pronta ad esaminare i ricorsi (ma, prima, avranno dovuto essere esaurite tutte le possibili iniziative nazionali). L’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha già espresso le sue riserve. E la Commissione europea resta “molto attenta”, anche se l’Esecutivo dell’Ue evita di pronunciarsi su una legge nazionale fin quando il provvedimento è in discussione.

Giampiero Gramaglia

Articolo precedenteLe nuove sfide della comunicazione globale
Articolo successivoLa parola si ferma solo sulla carta