Con l’aiuto del petrolio, la società civile si sta faticosamente aprendo la strada verso il potere, ergendosi contro i regimi corrotti. Con la consapevolezza dei rischi legati al diventare dipendenti da una sola voce economica

Nel centro di Luanda i “calonguieros”, i taxi collettivi bianchi e blu, si fanno ormai strada a fatica tra le quattro per quattro rutilanti che portano uomini di affari di tutto il mondo, venuti a raccogliere bocconi e briciole dell’impressionante boom economico angolano degli ultimi dieci anni. Sul lungomare, dove i “volontari’’ di Fidel Castro venuti a difendere il pericolante marxismo africano (sembrano mille anni fa!) carezzavano di sguardi piccanti le rivoluzionarie, le gru che lavorano a nuovi grattacieli formano un impenetrabile muro di ferro. Al largo decine di navi attendono il loro turno per entrare in rada. Nel 2014 entrerà in funzione il nuovo aeroporto costruito dai cinesi a passo bersaglieresco e che accoglierà, si dice, 13 milioni di passeggeri. C’è in questo Paese piagato da decenni di lotte e di stragi, la guerra contro il colonialismo, assurto a simbolo della miseria angariata, e poi quella civile, un’onda di dolce euforia, un palpito interiore di vittoria, un senso festoso di liberazione e di attesa.

La povertà non è una condanna.

La povertà, in Africa, non è dunque una condanna antropologica! Tra il 2002 e il 2011 la crescita è stata dell’undici percento, una delle più alte del mondo, superiore a quella dell’infinito miracolo cinese. E quest’anno il Fondo Monetario ha rilevato una crescita del prodotto interno lordo che dovrebbe attestarsi sul 9,7 percento.

Questo fenomeno ha un solo nome: “petrolio”. L’oro nero che rampolla prepotente, continuamente accresciuto di nuovi giacimenti, un milione e ottocentomila barili di media al giorno, il quarantacinque percento del PIL e il novanta percento delle esportazioni. Forse il simbolo più adatto per sintetizzare e raccogliere questa Angola titanica è l’immensa cattedrale galleggiante “Paxflor’’, la più grande piattaforma petrolifera del mondo, ancorata a centocinquanta chilometri al largo di Luanda.

Il miracolo non svaporerà, dunque, illimpidisce anche gli anni futuri. La scoperta di nuovi giacimenti profondi nel bacino del Kwanza dovrebbe rendere l’Angola rapidamente il primo produttore petrolifero del continente, scavalcando la Nigeria. A settembre è iniziato poi lo sfruttamento delle riserve di gas, undici miliardi di metri cubi almeno, un’altra, l’ennesima cifra eloquente, che dà il capogiro. “Sonangol”, la compagnia di stato che si occupa del settore petrolifero, è la seconda impresa d’Africa per guadagni, uno stato nello stato brontolano gli anziani marxisti, accigliati e cipigliosi, che si scambiano ricordi e rimpianti nel centro ormai irriconoscibile di Luanda invocando l’Iliade (finta) dei barbudos e della virtù rivoluzionaria. Non hanno del tutto torto: Manuel Vicente, il suo presidente, è considerato nelle mormorazioni della capitale, come l’erede neppur troppo segreto del presidente Eduardo dos Santos, antico guerrigliero scaltrito dal petrolio alle gioie del libero mercato e (in parte) del pluripartitismo.

Ecco l’Africa del petrolio, il nuovo Kuwait che si affaccia, ad esempio, sulle meraviglie del “Triangolo d’oro”, formato dalla costa occidentale africana, il Golfo del Messico e il Brasile, l’oceano dell’oro nero, le acque dell’offshore e dell’offshore profondo capaci di mobilitare più di 500 miliardi di euro di investimenti nei prossimi cinque anni. È questa l’Africa che scopre “per fas et nefas”, di avere investitori e miliardari, ma anche una borghesia cresciuta intorno e dentro l’industria petrolifera che per gusti e ambizioni politiche ormai può rapidamente stravolgere il continente.

I nuovi ricchi.

Torniamo ancora all’Angola, che aiuta a capire. Mentre centinaia di migliaia di poveri danno l’assalto a Luanda per vedere, toccare e partecipare al miracolo, loro che in maggioranza vivono con due dollari al giorno (già si studia, per questo, il progetto, di una nuova città, Kilamba, da realizzare dal nulla, capace di accogliere mezzo milione di abitanti, per allentare la pressione umana sulla capitale), si moltiplicano le dinastie dei ricchi: Amindo César, che iniziò venti anni fa con la “Maboque”, specializzata in ristoranti alberghi e catering, e oggi domina nella pesca nella grande distribuzione, nella formazione professionale. O Bento Kangamba, un giovane imprenditore che rappresenta gli umori e lo slancio della nuova generazione cresciuta nel partito al potere, attivissimo nei diamanti, nei giornali, nella produzione musicale e nello sport; o ancora Sebastiao Labrador tecnocrate che guida il Banco del sol, il maggiore istituto di credito privato del paese. E Isabel, certo, la figlia del presidente, una delle donne più ricche dell’Africa, simbolo di criptocrazia che ha messo a frutto i vecchi tarlati marxismi in salsa africana, ma anche dell’altra metà del cielo protagonista dell’Africa nuova che si è buttata dietro le spalle come un cencio usato i luoghi comuni (il continente immobile…. incapace di creare e innovare…) e è entrata ardente e ardita nella modernità e nella globalizzazione.

L’Angola, sì, è lo specchio in cui l’Africa del petrolio, che ogni giorno si allarga con nuove scoperte, spia il suoi sogni, le sue speranze e i suoi problemi: nuovi giacimenti in Uganda, in Kenya, Mauritania, costa d’Avorio, il Mozambico dove Eni scopre riserve gigantesche (300 mila barili dal 2016) e poi l’Africa occidentale, il golfo di Guinea, le nuove petrocrazie che parlano ormai non soltanto arabo, ma le lingue africane. In Africa il petrolio ha fatto sì che la ferrea legge nata con le indipendenze degli anni sessanta, l’intangibilità delle frontiere, venisse violata: per l’oro nero è nato un nuovo stato, il sud Sudan.

Un’opportunità o una maledizione?

È un continente nuovo, dunque, quello che si prepara a mettere a frutto questa manna. L’Africa che ha seppellito gli antichi grotteschi satrapi che riempivano con la rendita delle ricchezze minerarie i forzieri svizzeri e belgi, l’Africa stravolta e sconvolta dalla rivoluzione del telefonino che, ben più di internet, ha scavalcato secoli di arretratezza, colmato distanze, decantato credenze immobili. Con l’aiuto del petrolio, la società civile si apre la strada, faticosamente, talora confusamente, verso il potere; si erge contro i regimi dei falsi multipartitismi e dei presidenti eternamente rieleggibili; esige che la corruzione non sia più una pratica normale, e attende le primavere che hanno già cambiato l’Africa araba e mediterranea e premono irresistibili, tentatrici verso sud, a scavalcare il deserto e a contagiare altre coscienze.

Un fatto nuovo, importante: nei nuovi Paesi petroliferi non ci si abbandona all’euforia cieca, ci si interroga sui rischi collegati al diventare dipendenti da una sola voce economica, che con il passare del tempo tende a spropositare e diventa se, non controllata, maledizione. E gli esempi non mancano anche in Africa. Giudiziosamente si tenta di impiegare parte della rendita petrolifera a difendere l’ambiente e a innervare e risvegliare altri settori economici, come l’agricoltura. Ad esempio nel 1974, prima che la guerra cancellasse tutto, l’Angola era il terzo produttore mondiale di caffè: ci sono 35 milioni di ettari coltivabili, ma si sfrutta solo il dieci percento, in un Paese che importa tutto ciò che consuma e dove acqua e elettricità restano per la maggior parte della popolazione un miracolo. Così 42 miliardi di petrodollari tra il 2002 e il 2012 sono infrastrutture, ponti strade, ferrovie. L’Africa è diventata saggia.

Domenico Quirico

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