di GIAMPIERO GRAMAGLIA

La recente condanna di Google, pronunciata dal giudice milanese Oscar Magi, in base al principio che sul sito non tutto può essere permesso, pone con forza l’interrogativo se libertà d’espressione e liceità d’espressione siano equivalenti o se vi sia tra l’una e l’altra un confine. Le motivazioni della sentenza del giudice Magi, pubblicate di recente, alimentano la discussione, mentre i responsabili di Google giudicano la loro condanna “un attacco ai principi della Rete”.Quando venne pronunciata, e quando poi è stata spiegata, la sentenza è stata uno dei temi italiani più trattati dalla stampa internazionale. Dopo la pubblicazione delle motivazioni, il New York Times titolava “Giudice italiano cita profitto per giustificare condanna Google”, mentre El Pais sintetizzava così le ragioni del verdetto: “Niente al di fuori della legge può stare sul Web”.

Certo, parlare di limiti alla libertà di espressione in Rete può suonare male, proprio quando l’organizzazione del movimento d’opposizione iraniano tramite il Web e il recente contrasto tra Google e il governo cinese alimentano la sensazione che Internet e le tecnologie digitali possano favorire ovunque una maggiore libertà e contribuire a fare penetrare la democrazia anche nei regimi autocratici.

Tuttavia c’è chi sottolinea come spesso le opposizioni non siano affatto promotrici di valori di libertà. Al tempo stesso, la tecnologia non propone valori neutrali, perché l’innovazione è inevitabilmente permeata dal sistema culturale occidentale e, in quanto tale, è guardata con sospetto da parte di regimi nazionalistici o culturalmente distanti.

Reporters Sans Frontières ha recentemente stilato una classifica dei censori del Web: Cina, Vietnam e Iran dominano la lista, seguiti da Siria, Birmania, Egitto, Corea del Nord, Cuba, Arabia Saudita, Uzbekistan, Tunisia e Turkmenistan. Rsf mette così in fila gli Stati che censurano, filtrano e rendono difficilmente accessibile Internet. Se il controllo della Rete mira ad evitare il diffondersi di critiche e l’organizzazione di proteste e di forme di opposizione. Internet significa libertà, innanzi tutto di espressione, e offre un luogo di incontro e di scambio di opinioni, anche ben al di là dei confini nazionali. Grazie alla Rete, sono oggi possibili “contaminazioni intellettuali” e “fughe di notizie” impensabili pochi anni or sono. Gli Stati nemici del Web cercano, però, di isolare il più possibile i loro cittadini: non solo vogliono evitare che diffondano informazioni ma vogliono anche che non ne ottengano dall’esterno.

Con la sentenza del giudice Magi, l’Italia rischia di ritrovarsi nella classifica dei cattivi del Web? Rsf – lo vedremo – segnala il rischio, ma personalmente, non ci credo. E sono, anzi, piuttosto incline a dare ragione al magistrato milanese quando, motivando la condanna di tre dirigenti di Google per violazione della privacy in relazione a un filmato che riprendeva un minore disabile insultato in aula, scrive che “sul sito non tutto può essere permesso”: il Web non può essere un porto franco, perché, allora, pedofilia, istigazione al crimine e predica dell’odio razziale vi dovrebbero avere asilo.

Ma i pareri sono contrastanti, sulla sentenza di un processo dove -come ha scritto Franco Abruzzo sul suo blog – “libertà, responsabilità e censura” si intrecciano e che, in ogni caso, “è destinato a segnare una tappa fondamentale nella società dell’informazione”. Intervenendo nel processo, con una dichiarazione sollecitata da Edima (l’associazione europea dei media digitali, cui aderisce Google), il commissario europeo alle tlc Charlie McCreevy aveva sottolineato che l’unica norma vigente – la direttiva sull’E-commerce 2000/31/CE (recepita nel dlgs 70/2003) – impone ai provider solo di rimuovere i contenuti illeciti “una volta avutane conoscenza o consapevolezza”. Ed è quello che Google ha fatto in questo caso specifico. Per Reporters sans frontieres, “questa condanna purtroppo instaura di fatto una necessità di controllo a priori sulla pubblicazione di video ed è un grave colpo alla libertà di espressione. La sentenza costituisce un precedente pericoloso, proprio in quanto è stata pronunciata in un Paese democratico”.
Tutte considerazioni legittime e degne della massima attenzione. Ma la posizione del commissario McCreevy ha un sapore strettamente giuridico – e denuncia una carenza delle norme -, mentre la posizione di Rsf è un’affermazione di principio senza adesione al fatto in oggetto. È vero che oggi è difficile, non solo per i figli della Società dell’Informazione, i “nati digitali”, ma anche per chi alla Società dell’Informazione è approdato da esperienze precedenti, vivere “scollegati”. Ma non per questo si deve confondere il luogo simbolo dello stare in Rete, Google, con la “voce del popolo” che era, se mai lo è stata, “voce di dio” nei detti popolari.
La direttrice di Media Duemila, Maria Pia Rossignaud, scrive: “In effetti la Rete con i suoi motori di ricerca, i social network, la posta elettronica, è parte integrante della vita di ciascuno di noi… Google ne è il fenomeno per eccellenza. Da un lato necessità quotidiana, dall’altro incubo moderno. Dalla vita privata al business niente più sembra potersi fare senza ‘googlare’ “. Vero. Ma proprio per questo Internet, e dentro Internet Google, non possono essere luoghi senza legge, senza limiti e senza responsabilità. Già oggi “googlare” può essere un azzardo, perché il grano della buona informazione è mischiato al loglio della cattiva informazione. Ma se Google cresce come un intrico di disinformazione, diffamazione, violazione della privacy, il suo utilizzo diventerà sempre meno affidabile. E, alla fine, la “piazza della libertà” del Web sarà disertata.

Giampiero Gramaglia

Presidente Associazione “Amici di Media Duemila”

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