“Quando si parla di social network si adoperano concetti quali partecipazione politica dal basso, democrazia emergente o si usano neologismi quali ‘netizen’.
Il termine dal quale voglio partire è, invece, ‘identità’, poiché quando abbiamo a che fare con una rete sociale (non necessariamente una rete Internet) si immagina di solito un gruppo di individui fortemente distinto da un aspetto comunitario, sia esso il legame del clan o l’appartenenza a una stessa religione o a un’ideologia politica o la condivisione territoriale. Una rete sociale è, spesso, una comunità ben connotata dal punto di vista dell’identità. Non obbligatoriamente una comunità chiusa, ma certo una comunità caratterizzata da una consapevole alterità verso chi è estraneo a essa.
Mi pare che le reti sociali su Internet abbiano segnato una radicale svolta rispetto a una visione in cui l’identità è una sorta di gabbia, reale o psicologica.
La prima novità è che appartenere a una comunità virtuale è il risultato di una autonoma e libera scelta dell’utente che può uscire da un gruppo, iscriversi a un altro social network, scegliere un profilo più confacente, abbracciare nuove idee, nuove cause, nuovi svaghi; e tutto ciò lo si può realizzare in tempi celeri, scavalcando così una buona parte delle regole che gli studiosi applicano alle comunità non virtuali (si pensi, ad esempio, come sia facile uscire da una web-community e come sia difficile, talvolta impossibile, uscire da una comunità ‘materiale’).
Questa facilità è al tempo stesso causa ed effetto di come si sia ridisegnato il concetto stesso di identità individuale in rapporto alle comunità. Non c’è dubbio che negli ultimi cinquant’anni l’identità di ciascuna persona si sia espansa, allargata, resa di fatto molteplice, variegata, più complessa e meno facilmente riducibile a una catalogazione professionale, religiosa, geografica, etnica.
Per fare un esempio, i contadini abruzzesi descritti da Silone in Fontamara o i pescatori romagnoli di un bel romanzo del 1920 di Marino Moretti, avevano certamente dentro di sé molte identità in potenza, ma in atto la loro vita era limitata nello spazio, negli interessi, nelle conoscenze, nelle opportunità. Schiacciati dalla miseria o dall’ignoranza, dai pregiudizi o dall’autorità. E probabilmente i figli del cafone e del pescatore avrebbero ereditato l’identità professionale (e quindi sociale) paterna.
Oggi la nostra identità non è segnata per sempre dal lavoro che facciamo o dai nostri studi, poiché i nostri interessi, gli hobby, le nostre passioni la segnano con altrettanta forza, la cambiano, la modificano, la mettono in correlazione. Per prendere spunto da un saggio di Amartya Sen, potremmo dire che un integralista islamico e un israeliano saranno nemici se consideriamo la loro identità nazionale e religiosa, ma potrebbero avere molte cose in comune se solo dessimo valore ad altre identità: magari entrambi sono vegetariani e amano il cinema o la musica, entrambi potrebbero avere figli ed essere interessati a come educarli o alle loro vacanze.
In un recente film, La banda, i musicisti della banda musicale della polizia egiziana di Alessandria sono invitati in Israele all’inaugurazione di un centro culturale arabo. Per sbaglio si ritrovano, però, nel bel mezzo del deserto in una desolata cittadina israeliana. Là, nella solitudine del nulla, le identità principali non sono più quelle classiche che immagineremmo, ‘arabi’ e ‘israeliani’, ma emergono molte altre identità – quelle dell’interesse musicale ad esempio, oppure quella del legame generazionale – che uniscono egiziani e israeliani, o magari dividono le persone, ma non secondo lo schema nazionale o religioso.
A questo arricchimento delle nostre identità il social network offre risposte multiple e mobili. Multiple, perché è come se ognuno di noi avesse davanti un enorme armadio con centinaia, con migliaia di cassetti e ognuno d’essi contenesse un pezzo dell’infinita, complessa, intricata, matassa del social network mondiale. Posso aprire il cassetto del mio profilo su Facebook oppure quello del mio blog; posso aprire la mia pagina su MySpace, posso pubblicare foto sul mio album su Flickr, posso entrare in una community letteraria, posso cercare un gruppo per migliorare il mio spagnolo, un altro che si batte contro il nucleare e un altro ancora che si impegna per la diffusione delle tradizioni locali.
Mobili perché il bello dei social network è che ogni iscritto, ogni partecipante a un dibattito, ogni utente che naviga, scrive, visita, legge, pubblica, organizza il suo tempo, fa amicizia o si scontra con altri utenti, non è per niente un ‘affiliato totale’. Pensiamoci: fino a pochi decenni quante ‘iscrizioni’, quante tessere avevamo in tasca? Una o due al massimo. Quella di partito identificava in qualche modo chi fossimo, se c’era anche la tessera di un circolo ricreativo o di qualche associazione ambientalista o umanitaria era già molto. Oggi le nostre tessere virtuali si sono moltiplicate: ne abbiamo decine e decine, e, soprattutto, la mia mobilità di uscire ed entrare, di partecipare o stare in attesa, di essere on line o off line, è testimonianza di libertà.
Per la politica italiana la novità della rete sociale su Internet è una rivoluzione non conclusa, ancora in corso. In genere, mi pare, si tende ancora a considerare il 2.0 come un enorme bacino elettorale, di cui si sa molto poco, ma nel quale comunque val la pena gettare l’amo. Come dire che il Web è così tanto frequentato che qualche pesce abboccherà di certo. Ma è una illusione.
I social network che guardano alla politica, in realtà, sono innanzitutto luoghi di forte confronto, di richiesta di informazioni, di proposta, di critica, di osservazione, di relazione. Se per il marketing il 2.0 ha significato una svolta rilevante (si pensi al marketing relazionale), è ora che anche la politica si accorga che i social network prima di essere bacini elettorali, sono luoghi di crescita e di esperienza di un fare politica che non è dentro i canoni del vecchio attivismo partitico.
Il social network è, insomma, una forma esigente di controllo della politica. Difficile barare, difficile vincere coi soli slogan, con le promesse eternamente uguali a se stesse elezione dopo elezione. Nei web media sociali il politico è convincente in forza di quel che dice e di quel che fa.
Rispetto alla TV, dove può vincere il metodo berlusconiano della ripetitività ossessiva dello stesso concetto (l’opposizione è comunista) e della disattenzione dovuta alla fruizione spesso superficiale del mezzo (chi ricorda tutte le promesse del presidente del Consiglio?), il social network mi pare rovesci la situazione -nonostante che le opinioni degli esperti non siano tutte concordi.
La ripetitività sul Web produce abbandono e il ‘netizen’, il cittadino-navigatore, pone grande attenzione a ciò che i politici scrivono, affermano, assicurano. Se vogliamo dare uno sguardo oltreoceano, si pensi all’Obameter, il termometro digitale inventato dal St. Petersburg Times per verificare quante promesse annunciate da Barack Obama in campagna elettorale siano state mantenute (chissà, appunto, che accadrebbe in Italia..).
È un modello di democrazia, questo dei social network? Certamente è una nuova forma di partecipazione civile, è un innovativo controllo da parte dei cittadini sui loro rappresentanti, è una più facile forma di dialogo – con meno interposizioni – fra eletti e elettori, ed è anche un modo per rendere più appetibile, più interessante la politica, altrimenti considerata come un corpo estraneo alla vita quotidiana.
È anche la scommessa del PD che, di fatto nettamente svantaggiato nel settore televisivo tradizionale, è entrato nella rete dei media sociali con numerosi strumenti, da YouDem TV a PD Network. Non che si voglia essere a tutti i costi dei don chisciotte, poiché è ovvio che l’impero mediatico direttamente o indirettamente collegato al presidente del Consiglio in carica è uno dei più potenti del pianeta, ma è anche vero che la rete web potrebbe riservare – e già riserva – sorprese. Un po’ come Davide contro Golia”.
Walter Veltroni Deputato PD

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