Ecco uno studio di quelli che dimostrano “scientificamente” ciò che tutti per esperienza sanno o intuitivamente sospettano: eppure, i risultati fanno colpo lo stesso. Anche se – sia messo a verbale – io sono convinto, e voglio restarlo, che non sia vero quasi niente di quel che i ricercatori dell’Università di Padova asseriscono.
L’asserto è che lavorare troppo può danneggiare la carriera. Non lo dice una congrega di furbetti o pelandroni, ma uno studio che ha preso in esame 322 lavoratori di un’azienda privata per un periodo di 15 mesi: un campione molto limitato –quell’azienda può essere un caso a sé e il pubblico impiego non è sondato-, ma non facciamo i pignoli.
A renderne conto giorni fa è stato il tabloid britannico Daily Mail, senza approfittarne per infierire sullo stereotipo degli italiani sfaticati. Ripresa dalla stampa italiana, la notizia è stata molto ‘cliccata’, ad esempio, sul sito del Sole24Ore, da dove ricaviamo lo spunto.
L’allarme dovrebbe mettere in guardia gli stakanovisti: chi lavora senza tregua, fa straordinari a oltranza e rimane fino a tardi in ufficio non si illuda di avere più successo e promozioni. Ma in realtà un conto è lavorare molto e bene da buon stakanovista e un conto è essere “workaholic”, lavorare tanto e produrre poco (e quel poco magari male).
I ricercatori di Padova notano che il “workaholism” è dannoso alla salute del lavoratore ed anche alla performance in ufficio. Oltre ad aumentare lo stress psicologico e fisico, lavorare in modo “compulsivo” riduce l’efficienza e aumenta pure le assenze per malattia.
È definito “workaholic” chi lavora sia ossessivamente che compulsivamente, con entrambe le caratteristiche presenti ad alto grado. Il “workaholic” fa troppe ore straordinarie, si porta il lavoro a casa e dedica troppo spazio e attaccamento emotivo al proprio lavoro, così che ha troppo poco tempo per recuperare energie fisiche e mentali.
Gli sforzi dedicati al lavoro devono essere seguiti –ricorda lo studio- da un’adeguata fase di “distensione” o “ripresa” per assicurare un ottimo stato di salute e di funzionalità. Il che, detto per inciso, vale pure per gli sforzi nello sport o in qualsiasi altro ambito, anche il più piacevole.
Il team dell’Ateneo di Padova ha seguito i lavoratori di un’azienda di ingegneria meccanica del Nord Est nell’arco di 15 mesi (dal dicembre 2010 al febbraio 2012). Ciascun lavoratore ha compilato questionari che hanno permesso di stabilire fino a che grado avesse comportamenti “workaholici”. Lo stress psicofisico è stato misurato con rapporti medici, valutazioni delle performance da parte di un supervisore, numero di assenze per malattia.
Conclusioni: il “workaholism” induce a lavorare magari più duramente dei colleghi e per molte più ore, ma lo stress auto-inflitto alla fine riduce la performance e costringe ad assentarsi più spesso dal lavoro. Non ne vale la pena: fa male alla salute e non fa bene alla carriera.
Ma di qui a rovesciare l’asserto, affermando che lavorare meno fa stare meglio e fa prendere i galloni più in fretta, c’è un passo di qualunquismo che non voglio fare (e che neppure i ricercatori di Padova fanno). E se tutti noi abbiamo esperienza di un collega che non fa nulla e diventa capo, sappiamo bene che non sempre sul lavoro (e nella società) le logiche sono quelle del merito. E lì essere stakanovisti o ‘workaholici’ c’entra poco.
E poi ciascuno di noi ha pure l’esperienza di un collega bravo, che s’impegna e che fa carriera, senza che nessuno possa fargli le pulci. Eccheddiavolo!, spezziamola una lancia per gli stakanovisti. O questo è già un segno che sono sulla via dei ‘workoholici’?