Perdono peso le cause ideologiche sovranazionali. Aumentano le divisioni etnico – religiose all’interno dei singoli Paesi dell’area e tra uno Stato e l’altro. Le possibili ripercussioni in Iran e in Palestina

Al di là dell’evoluzione della situazione interna di Tunisia, Egitto e Libia, la Primavera araba ha inequivocabilmente alterato l’assetto geostrategico mediorientale. Ma, a differenza delle altre agitazioni rivoluzionarie e dei colpi di stato che sin dagli anni ‘50 hanno travolto a più riprese la regione (i successi dei movimenti nazionalisti arabi – da Nasser in Egitto a Saddam Hussein in Iraq, la rivoluzione islamica iraniana, l’ascesa di Hezbollah in Libano, i movimenti jihadisti islamisti un po’ ovunque), la “Primavera araba” non aveva un’agenda o delle connessioni sovranazionali: al contrario, i dimostranti erano preoccupati esclusivamente della loro situazione nazionale, mentre non hanno dato spazio a rivendicazioni a sostegno di cause sovranazionali, come la questione palestinese, e non hanno ceduto alle abituali condanne contro il sionismo o l’imperialismo statunitense. E anche quando le elezioni hanno portato al potere i partiti islamisti in Tunisia e in Egitto – nonostante questi non fossero in prima linea nelle dimostrazioni – essi sono stati abbastanza cauti da evitare di promuovere qualsiasi forma di militanza o solidarietà sovranazionale. Contrariamente ai rivoluzionari iraniani, che nel 1979 presero d’assalto le ambasciate israeliana e statunitense, i governi tunisino ed egiziano hanno protetto (o hanno cercato di farlo) le ambasciate americane, e gli egiziani non hanno nemmeno congelato i rapporti diplomatici con Israele.
Il focus si sposta sulla situazione nazionale interna.
La prima conseguenza geopolitica della Primavera araba è quindi quella di aver riportato il focus della mobilitazione politica popolare sulla situazione nazionale interna, a scapito delle cause ideologiche internazionaliste: ecco spiegato perché tutti i soggetti che hanno costruito il loro ruolo intorno alla mobilitazione delle masse arabe contro l’“Imperialismo occidentale” sono molto critici nei confronti della Primavera araba (tra questi l’Iran, tutti i jihadisti, molti salafiti, Hizb-ut-Tahrir, Hezbollah, ma anche – paradossalmente – molti intellettuali arabi di sinistra, in particolare tra quelli stabilitisi in Occidente). Ovviamente il nazionalismo, anche nella forma egoista, non ha mai smesso di essere il fulcro della politica estera dei regimi mediorientali; tuttavia molti di essi (quelli di Gheddafi, Saddam Hussein, Bashar al Assad, Khamenei e, in misura minore, il regime algerino) si dichiaravano in prima linea nella lotta collettiva della Umma (comunità) araba e/o musulmana contro il “neocolonialismo”.
Questa nuova focalizzazione della politica araba sulle questioni nazionali è destinata a consolidarsi. La Primavera araba, anche nei casi in cui è stata seguita da contraccolpi conservatori, o addirittura autoritari, è espressione di un cambiamento profondo delle società arabe: sta prendendo vigore una nuova generazione, più individualista, meglio istruita e scettica nei confronti della vecchia cultura politica fondata su leadership autoritarie e carismatiche o nei confronti delle ideologie sovranazionali, che si tratti di panarabismo o panislamismo.
Si inasprisce la dicotomia tra sciiti e sunniti.
Ma la Primavera araba ha anche profonde implicazioni geostrategiche. Da questo punto di vista si sta infatti inasprendo una nuova dicotomia, che aveva iniziato a formarsi già dagli anni ‘80 come conseguenza della rivoluzione iraniana e del tentativo del Paese di farsi capofila della lotta contro l’occidente e Israele. Si tratta della divisione tra sciiti e sunniti, che attualmente costituisce la principale faglia mediorientale. Facciamo chiarezza: questa frattura non ha nulla a che vedere con i contrasti secolari tra “sciiti persiani” e “sunniti arabi” (lo sciismo e il sunnismo condividono le stesse radici arabe) e nel complesso lo sciismo arabo non si identifica affatto con l’Iran. In Iraq e in Libano, le ostilità settarie tra le due fazioni non erano comuni prima della fine degli anni ‘70. Gli alauiti siriani e gli aleviti turchi non si considerano sciiti, mentre gli sciiti del Bahrain non appoggiarono l’unificazione con l’Iran all’epoca dell’indipendenza (1971). Ciononostante, gli eventi che fecero seguito alla rivoluzione islamica in Iran portarono a una polarizzazione faziosa del Medio Oriente, che ora si fa sempre più rapida ed evidente. Subito dopo la rivoluzione islamica, Khomeini esortò la Umma musulmana a mobilitarsi contro Israele e gli USA. Quando l’Iraq attaccò l’Iran, nel settembre del 1980, tutti i governi arabi sunniti si schierarono più o meno apertamente al fianco dell’Iraq. Khomeini spronò il popolo arabo a insorgere contro i regimi al potere; tuttavia solo una parte delle minoranze arabe sciite lo seguì, mentre i più diffusi movimenti islamisti sunniti rimasero dichiaratamente neutrali. Per arginare l’influenza iraniana, il regime iracheno, il Bahrain e l’Arabia Saudita diedero vita a una decisa repressione contro la loro popolazione sciita; il partito Hezbollah, schierato a favore dell’Iran, si aggiudicò il monopolio della rappresentanza politica degli sciiti libanesi. Al contrario, in Siria il regime settario alauita sostenne l’Iran, implementando un’aspra linea anti-sunnita (repressione dei Fratelli musulmani) e persino favorendo un graduale processo di “sciitizzazione” della comunità alauita (sviluppo di istituti d’istruzione sciiti a Damasco, estensione del Mausoleo di Sayyida Zaynab, figlia di uno dei dodici Imam sciiti). In seguito l’intervento statunitense in Iraq distrusse uno dei baluardi arabi sunniti opposti all’Iran, scatenando forti timori tra gli stati del Golfo, che da quel momento videro incombere la minaccia iraniana. La questione nucleare iraniana ha accentuato la scissione, causando l’unione sullo stesso fronte di improbabili fazioni: Arabia Saudita, Egitto (con Mubarak), Turchia, Israele e occidente. Le minoranze politiche (se non demografiche) sciite nei Paesi sotto il controllo sunnita sono viste come “quinta colonna” dell’Iran (Arabia Saudita, Bahrain). L’Arabia Saudita ha sostenuto in modo esplicito i gruppi radicali sunniti, dall’Iraq al Pakistan. L’Iran ha armato Hezbollah. Ma in ogni caso la divisione non era completa fino alla Primavera araba: quando Hezbollah riuscì a resistere all’assalto israeliano nel 2006, per un periodo diventò il modello icona della resistenza araba, mantenendo forti connessioni con Hamas, il cui quartier generale era a Damasco.
Con l’Iran o contro?
La Primavera araba ha estremizzato la divisione. La conseguenza di qualsiasi processo di democratizzazione è che viene data voce alle maggioranze oppresse, accentuando inevitabilmente la frattura tra posizioni estremiste e spingendo Stati confinanti – e di conseguenza la comunità internazionale – a intervenire nel processo. Il primo caso, precedente alla Primavera araba, è stato quello dell’Iraq: tutte le elezioni nel Paese hanno finito per formare governi prevalentemente sciiti, che osteggiano le minoranze sunnite portandole a cercare il sostegno degli Stati del Golfo. Ma certamente i due nodi cruciali sono rappresentati da Bahrain e Siria, dove ogni modifica dell’equilibrio etnico nella classe dirigente altera in automatico l’equilibrio del potere nell’intera regione, a favore dell’Iran nel caso del Bahrain e a danno dello stesso nel caso della Siria.
L’opposizione siriana, centrata sulla maggioranza sunnita, si oppone automaticamente all’influenza iraniana. Se l’Iran perde l’alleato strategico siriano, rischia di essere tagliato fuori da Hezbollah e pressoché espulso dal Medio Oriente arabo. Per questo motivo l’Iran si spende a sostegno del regime di Assad. Hezbollah, seppur con riluttanza, si è adeguato, perdendo tutto il prestigio che era riuscito a ottenere nella guerra del 2006. Hamas si è trovato di fronte a una scelta molto complessa: allinearsi ai suoi alleati più forti contro Israele (Iran ed Hezbollah) o unirsi al gruppo dei Fratelli musulmani sunniti da cui proviene. La scelta è ricaduta sulla seconda opzione e Hamas si è spostato in Egitto e ha chiuso le moschee sciite di Gaza. In tutta la zona i movimenti salafiti, per quanto anti-occidentali, si sono uniti alla coalizione opposta ad Assad contrastando fortemente gli sciiti, bollati come eretici. Nell’agosto del 2012 il neoeletto presidente egiziano Morsi è andato a Teheran per esortare con veemenza gli iraniani a interrompere il supporto a Damasco. In Iraq, il governo sta aiutando gli iraniani a consegnare armi al regime, mentre i gruppi sunniti nella parte settentrionale del Paese passano armi all’opposizione. In Libano, la spaccatura tra sciiti e sunniti si è allargata fino quasi alla guerra civile, ed Hezbollah è isolato.
Il caso della Turchia.
Ma lo sviluppo più curioso riguarda la Turchia. Il governo dell’AKP, alla notizia del rifiuto della candidatura turca per l’ingresso in Europa, ha intrapreso un ambizioso progetto politico regionale, ma è caduto immediatamente nella trappola siriana. Dopo qualche esitazione, ha optato per una decisa linea diplomatica anti-Assad e si è unito di fatto alla coalizione sunnita a sostegno dell’opposizione. In seguito in Turchia è stata promulgata una politica religiosa più energica, che identifica Islam e sunnismo, una scelta che rappresenta un’aperta provocazione per la minoranza alevita turca, tradizionalmente piuttosto laicista, ma che potrebbe sviluppare un’identità sempre più “sciita” per reazione contro il sunnismo.
E per peggiorare ulteriormente la situazione, la Primavera araba ha anche alimentato la determinazione dei curdi siriani, che ora guardano verso i curdi turchi e iracheni. In questo caso, un intervento militare turco sarebbe probabile. In parallelo, l’Arabia Saudita sarebbe pronta a compiere gli stessi errori degli anni ‘80, quando sostenne la resistenza afgana: armare i gruppi estremisti sunniti semplicemente perché non conosce o, più precisamente, non vuole conoscere le altre parti in causa. L’Iran, isolato, potrebbe provare a rivalersi nel Golfo, il punto debole del Medio Oriente arabo, mentre è possibile che Israele colga l’occasione fornita dalle crescenti tensioni per colpire le centrali nucleari iraniane. Il presidente Obama avrebbe bisogno di enormi dosi di abilità e diplomazia per muoversi in un contesto simile, mentre il sogno russo di una sfera di influenza perduta sarebbe sostituito da un gretto potenziale nocivo.
Non tutte le conseguenze geopolitiche della Primavera araba sono tanto cupe. Non da ultimo, la Primavera araba potrebbe estendersi alla Palestina, minando l’egemonia sia di Hamas che delle autorità palestinesi, e mettendo gli israeliani di fronte a una nuova sfida: cosa succederebbe se, invece di una terza intifada, che potrebbe facilmente passare per terrorismo, la contestazione palestinese prendesse la forma di un movimento pacifico per i diritti civili? E il regime iraniano, che sulla questione nucleare adotta la tattica del bluff, potrebbe trovarsi a gestire pesanti ripercussioni interne, dovute sia alle sanzioni occidentali, sia al malcontento che si diffonde nel Paese andando a raggiungere gli ambienti conservatori oltre all’opposizione liberale.

Olivier Roy

media2000@tin.it

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