Google pubblica in homepage una petizione. Wikipedia esce listata a lutto. Michael Moore oscura i suoi siti, in segno di protesta. La rivolta sul web, universale e trasversale, contro le leggi anti-pirateria in discussione nel Congresso degli Stati Uniti sortisce subito effetto: altro che i tassisti al Circo Massimo, che già creano caos e disservizi; lo sciopero, o la serrata, che forse è più corretto, dei signori di Internet fa sì che l’esame del provvedimento di fronte alla Camera slitti a febbraio e che persino uno dei promotori, un Tea Party, il senatore della Florida Marco Rubio, eletto nel voto di midterm del novembre 2010, si dissoci dalle misure.
Google sintetizza così la questione: due proposte di legge presentate al Congresso Usa, la Pipa al Senato (Protect Ip Atc, di matrice democratica) e la PIPA alla Camera (Stop online piracy Act, di matrice repubblicana), mirano a debellare la pirateria online, ma minacciano di introdurre la censura sul web e d’imporre una normativa restrittiva alle aziende americane. “Gli esperti –dice Google- concordano nel sostenere che esistono metodi ben più efficaci per eliminare i siti web illegali, senza dover costringere le aziende americane a censurare la rete”.
La rivolta del web ha interpreti eccellenti e motivazioni libertarie. Ma non fa l’unanimità: politici e intellettuali si dividono, lungo linee che non sono necessariamente di partito o ideologiche. Sono contro, per esempio, l’ex speaker della Camera, la democratica italo-americana Nancy Pelosi, e Arianna Huffington, la creatrice dell’Huffington Post, guru ‘liberal’, ma è a favore un ex portavoce di Bill Clinton, Mike McCurry, secondo cui “la pirateria sul web è già costata al paese due milioni e mezzo di posti di lavoro. I siti pirata minacciano le fondamenta stesse dell’economia americana e vanno fermato”.
E, sul Corriere della Sera, uno scrittore celebre come Scott Turow, autore di best sellers e pure presidente del sindacato degli scrittori, si schiera a favore della legge, così come fanno l’industria cinematografica, l’industria discografica, le Camere di Commercio, il più potente sindacato americano Afl/Cio e case editrici di ogni tipo, fino alla News Corp di Rupert Murdoch. Nelle sue dichiarazioni, Turow non è tenero coi ribelli sul web: “Avrei maggiore rispetto per le proteste se non venissero da organizzazioni tese solo a proteggere il proprio diritto ad arricchirsi, vuoi con la pubblicità, vuoi con i siti pirata. Le nostre leggi non hanno mai permesso a nessuno di chiudere un occhio sui comportamenti criminali e non cominceranno a farlo adesso”. Se approvate, le due leggi permetterebbero ai titolari di copyright di agire “direttamente” contro social network, siti e blog.
Il malessere suscitato da PIPA e SOPA testimonia che il problema dell’equilibrio, su Internet, tra libertà d’accesso e tutela del copyright è lungi dall’essere risolto. L’equivoco, pericoloso e controproducente, dell’equivalenza tra informazione gratis e informazione libera ha prodotto e rischia di continuare a produrre grossi danni: se l’informazione è un valore, ha un costo; e se il costo non lo paga l’utente, c’è chi l’ha pagato per lui, consentendogli, gratis, l’accesso all’informazione, o alla disinformazione, che vuole propinargli. Un discorso che vale per qualsiasi forma di proprietà intellettuale.