di GIAMPIERO GRAMAGLIA
Nell’Italia 2010, i programmi d’informazione televisivi, i tg e i talkshows, ci ricordano, ogni giorno, quanto sia sottile e talora difficile da tracciare (e da individuare) la linea di confine, che c’è sempre, tra informazione, giornalismo, propaganda: c’è chi la varca senza accorgersene (e, se se ne accorge, se ne rammarica) e c’è chi la passa di proposito (e se ne vanta pure).
E’ difficile per chi dà l’informazione ed è difficile per chi la riceve, che può prendere per oro colato una notizia di parte o che può fare tutto un fascio di erbe cattive di una buona trasmissione perché la bolla come faziosa. Vi sono direttori ed editorialisti che si fanno un titolo d’onore dell’essere schierati; e giornali che vendono ai loro lettori come informazione più rilevante della giornata quella – vera o falsa che sia, poco importa – che meglio serve all’interesse del loro referente.
La confusione, più o meno voluta o cercata, tra informazione, giornalismo e propaganda c’è sempre stata, anche quando il giornalismo modernamente inteso non esisteva ancora. Di che cosa parliamo? L’informazione è il testo di un discorso riprodotto senza commenti, né gerarchizzazione o selezione degli argomenti trattati, al di là magari dei vincoli di spazio (Tizio ha detto…, Tizio ha aggiunto…, Tizio ha concluso…). Il giornalismo è una sintesi del discorso e un’analisi dei contenuti, che ne mette in evidenza i temi salienti e di maggiore interesse e li chiosa o li integra con elementi che forniscano al lettore, o all’ascoltatore, o allo spettatore, o al navigatore, strumenti di confronto, di comprensione e di valutazione. La propaganda è l’esaltazione, o lo svilimento, del discorso, sovrapponendo il punto di vista di chi scrive o parla a quello dell’oratore e imponendolo a chi legge (o ascolta) senza dargli modo di formarsi un’opinione propria.
Intendiamoci, il giornalismo pamphlettistico, schierato, di parte, è sempre esistito e ha anche avuto pagine brillanti. Ma perché resti giornalismo e non diventi propaganda, che non spetta ai giornalisti, ma ai maghi dell’immagine e della comunicazione e ai pubblicitari più o meno occulti, deve essere onesto, cioè dichiarato: se io compro il giornale che è l’organo di un partito, o la rivista che è l’organo di un’azienda, o vedo la televisione di un movimento religioso faccio una scelta consapevole e so che cosa m’aspetta e ho pure elementi per decodificare, se voglio, il messaggio che ricevo.
Ma se la propaganda è servita in modo surrettizio, da canali votati al servizio pubblico dell’informazione, o da media che si fanno portavoce di interessi o di gruppi senza dichiararlo, allora essa è un esercizio distorto del giornalismo e dovrebbe essere sistematicamente denunciata da chi tutela, o dovrebbe tutelare, l’etica della professione.
L’editore/tipografo/giornalista che, nel West dei pionieri, stampava il suo foglio settimanale, inveendo ad ogni numero contro lo sceriffo o il padrone delle ferrovie o il grande farmer, forzando, magari, la cronaca a suo favore, faceva il giornalista. Così come era un giornalista Peppino Impastato che, su RadioAut, denunciava ogni giorno la mafia nella Sicilia anni Settanta, fino a perderci la vita.
Il grande giornalista che legge o pubblica la velina fornitagli dal suo padrone, che non è necessariamente il suo editore, fa della propaganda e fa un pessimo servizio al nostro mestiere e, soprattutto, al suo pubblico, che siamo noi.
Giampiero Gramaglia