di CHRISTIAN D’ACUNTI –
Nell’anno del probabile addio della Kodak agli Oscar, si è assistito alla celebrazione di un cinema classico agghindato di modernità. E nella notte di Los Angeles si preannunciava, con nominati in abiti ecocompatibili (Meryl Streep con “The Iron Lady”, miglior attrice protagonista) e la coppia Brad Pitt e Angelina Jolie a fare gli onori di casa, la consacrazione del binomio letteratura e cinema. Ben sei, infatti, dei nove soggetti canditati per il “Miglior Film” sono tratti da romanzi. L’industria cinematografica, sempre più in affanno economico e a corto di idee, si vede costretta a ricorrere sempre più massicciamente alla letteratura. Non a caso qualche scrittore contemporaneo scrive ammiccando al grande schermo. Altra cifra degli Oscar di quest’anno si può rintracciare nei riconoscimenti arrivati per i grandi maestri del passato. Woody Allen è il vincitore per la migliore sceneggiatura originale con “Midnight in Paris”, viaggio visionario nella Parigi degli anni 20. Un altro grande “vecchio” del cinema, Christopher Plummer, si è portato a casa il premio di miglior attore non protagonista con “Beginners”, il più anziano, con i suoi 82 anni, a vincere nella categoria. Migliore attrice non protagonista, invece, Octavia Spencer che ha interpretato in “The Help” di Tate Taylor il ruolo della governante ribelle di colore di una famiglia di bianchi. Ma nella zona calda degli Awards è stato un testa a testa tra “Hugo Cabret” e “The Artist”, anche se non ci sono state grosse sorprese. Molti addetti ai lavori, solamente dalle prime scene hanno capito che l’“Hugo Cabret” di Martin Scorsese, adattamento del libro di Brian Selznick (“La straordinaria invenzione di Hugo Cabret”, Mondadori), avrebbe vinto, come è avvenuto, i premi più tecnici: fotografia, effetti speciali, montaggio, sonoro. E soprattutto scenografia, con la vittoria dei coniugi Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Con la pellicola presentata, il regista italo americano ha creato un cortocircuito originale proiettando sullo schermo le immagini del maestro Georges Méliès e dei fratelli Lumière in 3D. Vera novità per gli scenografi italiani perché costringe, secondo Francesca Lo Schiavo, a riempire maggiormente lo schermo di oggetti in primo piano per ottenere una maggiore profondità. Ma il trionfatore quest’anno a Los Angeles è stato “The Artist”, il film muto francese in bianco e nero di Michel Hazanavicius, che ha fatto incetta di statuette: miglior film, regia, attore protagonista (Jean Dujardin), costumi e colonna sonora. Storico verdetto per una pellicola transalpina sull’America: in 84 edizioni, infatti, non aveva mai vinto la Francia come miglior film e migliore attore. Il protagonista, un attore, sembra vivere tutta la sua frustrazione quando viene scaricato dalla produzione perché fa irruzione il sonoro. Quando negli studios partecipa alla prova del suono, come il personaggio di Jean Hagen nel mitico “Cantando sotto la pioggia”, scoppia in una risata, avvertendo il produttore che se la tenga pure la sua innovazione. La scena rimanda ai nostri giorni e a ciò che sta avvenendo nelle redazioni di tutto il mondo. Quando il protagonista torna a casa licenziato, sembra vivere la stessa frustrazione di editori alle prese con il passaggio dal cartaceo al digitale o di giornalisti affranti per la perdita di valore della propria firma. Ma come in ogni cambiamento di paradigma nel mondo dei media, ogni transizione non è mai netta. Con l’avvento della radio tutti hanno suonato de profundis ai giornali, così è successo con la nascita della televisione, che avrebbe ucciso la radio.
Un minimo comune denominatore tra il film di Scorsese e quello di Hazanavicius si può individuare nell’obolo versato da entrambi al grande cinema classico: una rivisitazione in 3D dei film che hanno segnato la carriera di Scorsese e il muto, con scene molto estetizzanti, adoperato come artificio tecnico e narrativo in “The Artist”.
Christian D’Acunti