Fino al 29 giugno 2014, l’Occidente non si era neanche accorto che stava covando una situazione di pericolo e di terrore. Quel giorno, un video, rimbalzato in maniera virale sui social network, con oltre 90mila tweet su siti ‘amici’, rivelò al mondo che un tal al-Baghdadi aveva autoproclamato la sovranità di un Califfato, dal territorio in progress, una forza militare di poche decine di migliaia di uomini e con una strategia aggressiva. Un’aggressività che si scatenava non solo sul terreno degli scontri a fuoco, bensì anche sotto il profilo comunicativo, onde catturare prigionieri e proseliti, anche virtualmente.
Di questo fenomeno, ormai di aperta belligeranza, parla il Rapporto dell’ISPI, curato dal suo direttore, Paolo Magri e da Monica Maggioni, direttrice di RaiNews: “Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis”, che analizza il percorso di aggressività mediatica – in particolare sui social – del cosiddetto ISIS, poi successivamente evolutosi in IS, non a caso, e i rapporteur ce ne spiegano il perché.
Accanto alla guerra guerreggiata – dice il Rapporto, presentato lo scorso 12 marzo a Roma, alla Sede della Stampa Estera – lo staff di comunicazione di al-Baghdadi conduce una campagna ‘multicanale’ con tante ‘bocche di fuoco’.
È, infatti, innegabile che sia ‘assistito’ da un agguerritissimo staff in materia, di stampo assolutamente occidentale, pur veicolando simbolicità d’imprinting culturale isisiano: si ritrovano profilazioni, target, tipi di messaggi e una scelta accorta di strumenti per veicolarli. S’intrecciano i social media, come Twitter, ma anche Facebook; l’orrore spalmato nello schifiltoso mondo occidentale con i video di orribili decapitazioni o ammazzamenti truculenti; oppure altri video di controinformazione; le brochure utilizzate per tranquillizzare le famiglie dei foreign fighters (sono 3mila e il numero è in crescita, ci sono persino i baby); le riviste patinate e gli ebook, nonché i videogiochi che ricalcano i più grandi successi della Playstation.
Quest’ultimo strumento divulgativo dimostra che il proselitismo si rivolge persino ad adolescenti e post adolescenti ed alle loro frustrazioni esistenziali.
Emerge dal Rapporto, ma anche dai dibattiti in corso, trasversalmente in Occidente, il doppio canale di IS: da un lato organizzazione terroristica, dall’altro Stato vero e proprio, dai confini indefiniti perché l’ambizione è quella di divorare il mondo.
Ciò lo dimostra – come ha detto il sottosegretario Marco Minniti nello corso della presentazione – anche il mutamento del nome in IS, ovvero Islamic State, e non più l’acronimo Iraq e Siria, eliso dalla prima denominazione.
Suggestiva anche l’analisi comunicativa che Monica Maggioni fa del filmato sulla morte sul rogo, in una gabbia, del pilota giordano Muad Kasesbeah.
La parte orrida del rogo in sé occupa solo 2 dei 22 minuti del filmato, tutti girati con un linguaggio filmico da kolossal e con un montaggio di immagini da serie di fantascienza. Inquietanti sono, però, i wanted inseriti nel filmato stesso, indicanti gli obiettivi umani da colpire in Occidente; quasi un gioco di specchi col famoso mazzo di carte che, durante la seconda guerra d’Iraq, gli americani avevano escogitato per indicare i loro ‘nemici giurati’, da Saddam Hussein in poi.
L’intervento di Marco Minniti alla presentazione è stato di grande chiarezza e razionalità: a cominciare dall’osservazione che l’Occidente, pur autocertificandosi esportatore di democrazia, non ha mosso un dito, allorquando le Primavere arabe, per avere pieno successo, abbisognavano di un suo sostegno. Conseguenza della sua inazione è stata una serie di crisi instauratesi proprio laddove le stesse Primavere arabe erano naufragate.
Dopo aver fatto un excursus storico lungo cent’anni – e anche di più, se pensiamo alla presa di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1257, fatto che in quell’area ebbe lo stesso impatto di quella di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani – risalendo agli accordi fra Francia e Inghilterra, imperanti cent’anni fa su quell’area (detti accordi Sykes – Picot), che determinarono un ridisegno delle sovranità dell’area, fatto con l’uso delle carte geografiche e del righello), Minniti ha fatto cenno ai 4 focolai di crisi aperti contemporaneamente nel mondo, ovvero ad una situazione assente dal pianeta almeno da 70 anni: l’Ucraina; l’Afghanistan; Siria + Iraq (ormai detto Siraq) e la Libia.
A essi va ad aggiungersi l’insinuante marcia di IS, visto che, dalla Nigeria, il fondamentalismo opportunistico di Boko Haram ha fatto sapere di aver giurato fedeltà all’IS, diversificando così i fronti di fuoco.
Le conclusioni del Sottosegretario sono state molto nette e precise: occorre agire in più direzioni, giacché, mentre per i quattro focolai di crisi elencati si possono tentare soluzioni diplomatiche, per lo scontro con l’IS, no, visto che lo stesso IS rifiuta l’apertura di ogni trattativa. Ha dichiarato più volte, esplicitamente, che andrà avanti come un rullo compressore, fino al proprio obiettivo finale: impadronirsi del mondo.
A fronte di ciò, l’Occidente deve dunque reagire in tre modi: l’opzione militare acerrima; un’attività di prevenzione che disarmi tutte le cellule terroristiche in territorio straniero e, la cosa più difficile di tutte, la riconquista di una propria visione del mondo, fatta di valori e di orgoglio per le proprie radici occidentali.
Il fanatismo non si vince, infatti, con un’identità tiepida e soffocata dall’apatia verso i simboli della democrazia, ma con una dirittura morale altrettanto granitica.
Annamaria Barbato Ricci