Giovanni CASTELLANETA

I successi raccolti dallo Stato islamico in Iraq sono dovuti in buona parte al sostegno che il “Califfato” ha trovato tra le comunità sunnite dell’Iraq. In un certo senso, essi sono dunque il prodotto della Seconda Guerra del Golfo, ed in particolare delle difficoltà incontrate nella ricostruzione delle istituzioni statali irachene, dopo la caduta del regime dittatoriale di Saddam Hussein. Su questo periodo cruciale della storia mediorientale abbiamo chiesto una testimonianza a Giovanni Castellaneta il quale, già ambasciatore in Iran, fu consigliere diplomatico (National Security Advisor) del presidente del Consiglio italiano Berlusconi negli anni del conflitto in Iraq, per poi essere nominato ambasciatore d’Italia a Washington.

Ambasciatore, nella sua carriera diplomatica lei ha seguito da vicino entrambe le guerre del Golfo, nel 1991 e nel 2003. Quali elementi in comune e quali differenze vede tra i due conflitti?

“Nel 1990 ero portavoce del ministero degli Esteri italiano, Gianni De Michelis, e nel 2003 consigliere diplomatico (National Security Advisor) nel governo guidato da Silvio Berlusconi. Ho seguito tutti i passaggi della guerra in Kuwait, rispetto alla quale De Michelis assunse una posizione dinamica in favore dell’intervento. La differenza più evidente tra i due conflitti fu il ruolo assunto dall’Onu: in Kuwait l’intervento, di fatto una guerra lampo, fu sostenuto da una risoluzione delle Nazioni Unite, mentre in Iraq, nel 2003, le cose andarono diversamente. Ciò che accomuna i due conflitti è comunque la brutalità del regime iracheno. Dopo la guerra lampo andammo con De Michelis in Kuwait, a pochi giorni dalla liberazione. Tutto era in fiamme, gli incendi erano ovunque e il paesaggio era lunare, apocalittico. La nostra stessa ambasciata era crivellata di colpi e tutti ci raccontavano dei saccheggi compiuti dalle truppe irachene. Il presidente George H. W. Bush però, in ottemperanza al mandato Onu, ed anche grazie ad una visione più strategica della situazione, decise di non arrivare sino a Baghdad”.

Quali furono le ragioni che spinsero il presidente a fermarsi?

“Bush sapeva che nessuno avrebbe difeso la capitale irachena e che in mezza giornata le truppe della coalizione l’avrebbero raggiunta, anche perché quello di Saddam si rivelò un esercito di cartapesta. D’altra parte, quella della coalizione era un’armata imponente, cui molti paesi vollero partecipare, grazie al cappello fornito dall’Onu. Bush padre in ogni caso scelse la strada della prudenza: non avendo chiara quale potesse essere la “exit strategy”, preferì dare una dura lezione a Saddam, senza tuttavia arrivare ad un cambio di governo. Fu una decisione presa a tavolino, anche per le incertezze riguardanti il futuro della comunità curda”.

La Turchia influì su quella decisione?

“Sicuramente, perché la Turchia ha un grande timore della nazione curda, un popolo di 20 milioni di persone distribuite in più stati, una nazione che potrebbe contare sul petrolio, nel nord dell’Iraq, ma che è priva di accesso al mare. Ankara vede con timore la nascita di un forte stato curdo ai suoi confini, e lo stesso vale per l’Iran. A mio avviso questo è un peccato: dopo anni di lotte, la nazione curda dovrebbe avere un maggiore riconoscimento sul piano internazionale. È chiaro che ci sono formazioni curde più o meno democratiche, ma alla base della loro battaglia vi è un principio etnico e linguistico unico. Comunque i turchi, dopo la lezione inflitta all’Iraq, con un Saddam indebolito, pensavano sicuramente di poter meglio controllare la situazione nella regione. La decisione di fermarsi fu però soprattutto del presidente Bush”.

Quando scoppiò la Seconda Guerra del Golfo lei era invece alla Presidenza del Consiglio italiana.

“Fu Giuliano Amato, allora capo del governo, a chiamarmi a Palazzo Chigi nel gennaio del 2001, senza tuttavia firmare il decreto della mia nomina. Dopo pochi mesi Silvio Berlusconi vinse le elezioni, e fui ufficialmente nominato Consigliere diplomatico (National Security Advisor) del primo ministro. In questa veste mantenni contatti pressoché quotidiani con i miei omologhi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e degli altri paesi, che furono poi direttamente coinvolti nella guerra in Iraq. Ho partecipato a tutti i negoziati che precedettero l’attacco del marzo 2003 e devo dire che Berlusconi provò sempre a dissuadere George W. Bush dall’intervenire militarmente in Iraq. Noi ritenevamo molto rischioso un intervento in assenza di una risoluzione dell’Onu, e Berlusconi faceva sempre pesare le sue ragioni in tutti gli incontri internazionali. È per questo motivo che l’Italia partecipò solo alla coalizione solo dopo la fine della guerra, inviando un proprio contingente militare a Nassiriya, in una fase di consolidamento della vittoria”.

Cosa può dirci della presenza delle armi di distruzione di massa nel paese?

“Eravamo consci che in Iraq non ci fossero armi di distruzione di massa. Berlusconi lo ha sempre detto, noi lo abbiamo sempre detto: io stesso ne ho parlato diverse volte con Condoleezza Rice, allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale di George W. Bush. La vera giustificazione della guerra non erano le armi di distruzione di massa, di cui non avevamo alcuna contezza, ma la brutalità del regime di Saddam Hussein. In quegli anni l’azione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e il programma “Oil for Food” avevano reso pressoché impossibile per Baghdad nascondere armi di quel tipo. Ricordo che girò anche una voce secondo la quale l’Iraq avrebbe acquistato uranio dal Niger con il coinvolgimento di alcuni italiani: un’ipotesi assurda, visto che l’unica miniera di uranio di quel paese è strettamente controllata dalla Francia. Per noi, ripeto, l’unica vera arma di distruzione di massa era lo stesso Saddam Hussein, il cui regime si era macchiato di orrendi delitti, come la gassificazione dei curdi”.

È vero che l’allora segretario di Stato Colin Powell non era d’accordo con l’intervento? E quale fu la posizione assunta dalla Rice?

“Quella della guerra in Iraq non è stata una delle pagine più belle per Colin Powell alle Nazioni Unite. È un grande amico, siamo molto legati, ma quella volta all’Onu si trovò costretto a difendere un intervento militare con una serie d’informazioni che poi non si rilevarono esatte. Quanto alla Rice, a differenza del Vice Presidente Dick Cheney, non ebbe un’influenza decisiva nel consigliare l’intervento armato, anzi, nel gruppo di Bush era la persona meno propensa all’intervento. Nel rispetto dell’amicizia con il presidente presentò varie ipotesi, ma poi Bush decise da solo. Voleva portare a termine l’opera del padre e in effetti è ancora convinto di aver fatto la cosa giusta. Ora ammette solo che la situazione “ci è un po’ sfuggita di mano” dopo il conflitto. Non ho mai avvertito doppiezza in lui, è sempre stata una persona sincera, diretta, come avemmo modo di constatare durante un importante incontro a Camp David, pochi mesi prima della guerra”.

Era il settembre del 2002…

“Sì, con Berlusconi fummo invitati a Camp David, la residenza del presidente in montagna. Fu un incontro piacevole, come quello successivo nel ranch della famiglia Bush a Crawford, in Texas, dove fui sistemato nella stanza che George W. occupava da ragazzo: una cameretta carina, ma modesta. A Camp David Berlusconi fece il suo ultimo tentativo di dissuadere il presidente statunitense dall’intervento armato, ma Bush era determinato ed era sostenuto anche dal Regno Unito e dalla Spagna, come si vide poi nel marzo 2003, durante il famoso vertice delle Azzorre. Io consigliai a Berlusconi di non prender parte a quel summit, perché fu la riunione in cui si preparava la guerra e, come ho già detto, non volevamo essere coinvolti senza una precisa autorizzazione delle Nazioni Unite”.

Quale fu il ruolo svolto dall’Italia?

“Al termine del conflitto l’esercito italiano ebbe un comportamento esemplare. Cercammo di avviare un dialogo con gli iracheni e di mantenere un legame tra sunniti e sciiti, per evitare quello che poi invece puntualmente accadde: un governo di matrice sciita prese il sopravvento, con tutte le conseguenze che oggi vediamo nella regione. Dopo la caduta di Saddam, gli americani stessi non riuscirono a creare un vero governo di coalizione. Forse sarebbe stato possibile adottare politiche diverse e ottenere risultati migliori, ma alla luce di altri interventi, come quello in Afghanistan, si può dire che è sempre difficile immaginare che paesi con tradizioni molto differenti dalle nostre, possano passare in breve tempo da un regime autocratico e autoritario ad uno democratico”.

L’Iraq appare ormai diviso in tre diverse entità: la Regione Autonoma del Kurdistan, nel nord, è quasi del tutto indipendente; l’Isis occupa le aree centro-occidentali a maggioranza arabo-sunnita; mentre le regioni del centro-sud, a maggioranza sciita, sembrano oggi, forse per necessità, più filo-iraniane di prima. Sarà possibile ricostruire lo stato unitario?

“Sinceramente non so se esista una via d’uscita che preveda il mantenimento dell’unità nazionale irachena. Come la Libia, l’Iraq è un paese creato con il righello dalle potenze coloniali e voler tutelare ad ogni costo quei confini, nonostante tutte le cautele del caso, potrebbe rivelarsi una scelta errata. Nell’immediato, tuttavia, alla luce delle nostre esperienze passate, ritengo più probabile la costituzione di una federazione “ampia”. L’unica possibilità per arrivare ad una soluzione comprensiva sarebbe una conferenza internazionale per la risistemazione del Nord Africa e del Medio Oriente, una sorta di Congresso di Vienna che, con la partecipazione di Stati Uniti, Russia ed altri importanti attori della regione, concordi una Carta d’impegni economici e politici. Forse si tratta di una soluzione utopistica, ma a volte vale la pena di perseguire le utopie. Forse la stessa Ue dovrebbe fare di più: noi che abbiamo vissuto le guerre mondiali e che abbiamo accettato l’esistenza di piccoli stati, anche all’interno dei nostri confini, forse potremmo uscire dallo schema delle “nazioni rigide”. Non possiamo più avere un atteggiamento di difesa di tutto ciò che è stato fatto nel secolo scorso”.

Giovanni Castellaneta è stato portavoce del ministro degli Affari esteri (1990-1991), ambasciatore d’Italia in Iran (1992-1995), in Australia (1998-2001) e negli Stati Uniti d’America (2005-2009). Dal 2001 al 2005 è stato inoltre Consigliere diplomatico (National Security Advisor) del presidente del Consiglio dei ministri italiano. Oggi è presidente di Sace, la società italiana di credito per l’esportazione (export credit).

Giorgia Lamaro (Agenzia Nova)

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